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la loro buona o cattiva novella.

La fioritura del teatro

Sulla forma dell’“anfiteatro pubblico” elisabettiano che precedette il teatro
chiuso giacomiano si è dibattuto molto sulla base di scarse testimonianze e
molte ipotesi. Considerato fino al Novecento un modo rozzo e primitivo di
far teatro, è stato poi esaltato come meccanismo duttile e sofisticato,
culmine e non inizio di una tradizione di far spettacolo. La scena tipica era,
con variazioni, un’ampia piattaforma attrezzata (avanscena, retroscena
chiuso, botola, alta tettoia, balconata praticabile ecc.) che si proiettava in
un cortile-platea circondato dalle tre gallerie di un edificio circolare,
quadrato o ottagonale. Gli spettatori occupavano, secondo il grado e la
spesa, sedie sul palcoscenico, le gallerie o la platea: un pubblico che studi
socioeconomici recenti propendono a credere piuttosto selezionato (a
privileged clientele, dice A.J. Cook), e meno popolare o misto di quanto si
supponesse finora.
L’apparato scenico era per analogia un universo che abbracciava terra (la
scena), inferno (la botola) e cielo (il tetto), e davvero esso era un apparato
onnivoro, un gran teatro del mondo, per cui tutto andava bene; la sua
voracità era permessa da strutture essenziali e duttili e da un agile
assieme di convenzioni per cui lo scrittore di copioni poteva selezionare
rapidamente il materiale montando i momenti di tensione o rilassamento
(subplot, scene comiche) in una serie coordinata, per giustapposizione o
accumulo, secondo schemi narrativi fissi (da un prologo alla conclusione
seguita da rasserenamento o morale). Altre convenzioni permettevano agli
scrittori più bravi di evitare l’allegorismo e il naturalismo, attenendosi a
una peculiare sintesi di realismo e astrazione (T.S. Eliot). Parecchie
convenzioni venivano dalla tradizione medievale, altre dai modelli classici,
e gli scrittori più geniali inventavano modelli che venivano ripresi con
variazioni fino all’apparizione di nuovi modelli di successo. Esplosa negli
anni Ottanta, e proibita dal governo puritano nel 1642, questa industria
produsse - per i teatri pubblici e per quelli più specificamente nobiliari o su
committenza della Corte - migliaia di plays in massima parte scadenti,
roba di consumo e d’interesse documentario. Ma una decina di scrittori
furono dei geni o talenti capaci di tramutare un prodotto di consumo in
un’opera alta e complessa. In questi casi lo scrittore, Marlowe o
Shakespeare, Jonson o Middleton o Webster, riusciva a imprimere alla sua
materia di Britannia o di Francia, di Grecia o di Roma, d’Italia o d’Oriente o
di Spagna, il proprio estro e intuito tragico o comico, portando la propria
soggettività a coincidere con l’oggettività della mimesi drammatica. I topoi
diffusi nella letteratura del periodo, i luoghi comuni dell’epoca (l’uomo
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