Page 24 - Shakespeare - Vol. 1
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ideologico nel suo ciclo. Il Kott ha rovesciato, sia pure peccando per
l’eccesso opposto, questo ottimismo patriottico, mostrando nei testi delle
cronache di che lacrime grondavano e di che sangue anche gli scettri dei
grandi re giusti. Kott vede il mondo delle cronache come un «teatro per
cannibali» (Brecht), uno spietato mondo machiavellico, anzi la proiezione
di una perversità e di un orrore metafisico senza scampo: la storia come
incubo. Visione altrettanto parziale, ma utile a far risaltare il soggettivismo
della lettura opposta, e il distacco di Shakespeare dalla visione organica
elisabettiana, non visione epocale ma ideologia ufficiale. Critici più recenti
si rendono conto dell’ambiguità del ciclo storico e dei suoi eroi, e di come
sia difficile trovarvi un messaggio. In realtà le cronache cominciano a porre
domande senza risposta: i re, i grandi principi agiscono in un pieno di forze
che rendono problematica la loro libertà e responsabilità, la loro stessa
individualità e la coscienza di ciò che fanno. Esseri ancipiti, fastosi e miseri,
idealisti e crudeli, sinceri e falsi, tiranni sanguinari e re carismatici, non c’è
un loro aspetto che non sia contraddetto da un altro e che non possa
essere una maschera: come quando assumono l’umiltà e il senso cristiano
dell’uguaglianza, che è parte della recita affascinante della regalità. I
grandi eroi di Shakespeare sfuggono alle etichette morali. Non è soltanto
che l’artista li umanizzi, egli li mostra nel loro animo multiplo di grandi
padri buoni e feroci, tiranni e pastori di popoli e spesso capri espiatori della
stirpe. Shakespeare non approva e non condanna Riccardo III, come non
approverà né condannerà Macbeth: li mostra nella loro grandezza
incomprensibile. E il mondo delle cronache, mostrato nei vari sottomondi, è
anch’esso contraddittorio, orrido e affascinante, carico di dolore e di morte
ma anche di promesse primaverili, di delitti e viltà ma anche di grandi
ideali e azioni. Con maggiore maturità di stile la seconda tetralogia rende
tragica la visione propagandistica delle fonti. Prologhi ed epiloghi, tirate
corali e scene finali positive sono parti di un tutto che li trascende, e non
ne intaccano la tragicità. Opere come l’Enrico IV, l’Enrico V o il Riccardo II
non sono visioni ottimistiche né pessimistiche, non esaltano né attaccano
la regalità, perché i punti di vista politici o etici o religiosi sono tutti interni
e spesso opposti tra di loro, così come nei prototipi greci la Dike di un
personaggio si opponeva alla Dike di un altro. Le lodi e gli insulti non sono
di Shakespeare ma dei suoi personaggi. Non c’è parola né giudizio, né
ideale umano o concetto di stato, che non sia opinione di questa o quella
parte, non c’è giudizio che non venga pronunciato da uomini nel pieno della
passione e del conflitto. Ogni parola di condanna e di lode viene dagli
abitanti dell’aiuola umana che l’autore ci mostra con occhio cosmico,
assorto nella «musica dell’intero» (Hofmannsthal) che supera le
rappresentazioni e i significati particolari (dolore o gioia, male di vivere o
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