Page 27 - Shakespeare - Vol. 1
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Dal 1604 al 1607 appaiono le opere maggiori, Otello, Re Lear, Macbeth,
Antonio e Cleopatra, precedute da capolavori come Amleto, Troilo e
Cressida e le due commedie Come vi piace e La dodicesima notte, e
seguite da altri capolavori come il Coriolano e il Timone d’Atene. Intorno al
1608-10, quando è in possesso di uno stile sovrano, Shakespeare compie
una svolta di cui si sono date tante motivazioni, e scrive le sue ultime
opere, i cosiddetti romances, quelle che Ben Jonson definì con un sorriso
«racconti, tempeste e simili facezie» (tales, tempests and such drolleries).
A lungo considerati lavori stanchi e compromessi tardivi con le nuove mode
teatrali, nel nostro secolo sono state rivalutate ed esaltate, prima come
opere fantastiche e originali, portatrici di un messaggio di distacco e
rasserenamento finale, poi come grandi opere sperimentali ed ermetiche,
ma per nulla serene o rasserenanti. E forse dovrebbero chiamarsi delle
tragicommedie, più vicine allo spirito manierista e barocco e agli spettacoli
di corte, in certo senso delle sublimi parodie che Shakespeare fa di se
stesso, e raffigurazioni di un mondo fiabesco, mitico, o con un termine
usato da Milton per il linguaggio di Shakespeare, «delfico». Opere certo
innovatrici, come alcuni dei drammi di Euripide, e come quelli, drammi che
della visione tragica sembrano quasi un ricordo (Lombardo vi vede, e lo
spunto sarebbe da seguirsi, un riflesso baconiano). Più degli altri plays di
Shakespeare i romances possono sembrare enigmatici e puzzling
(Bradbrook), mirabili strutture spalancate ad accogliere sensi diversi.

Orientamenti critici

Una critica della critica

Sembrerebbe che il compito del nostro tempo nei riguardi di Shakespeare
non sia di avanzare nuove interpretazioni, ma piuttosto di operare una
critica della critica, e su questa base di formulare una nuova ipotesi, di
forgiare un metodo che permetta di uscire dal cerchio vizioso delle
interpretazioni e ricominciare da capo una lettura aperta dei testi. Il punto
di partenza, credo, non può essere che il rendersi conto dei preconcetti e
d e g l i idola della critica tradizionale. A cominciare dalla ricerca del
“significato storico” dell’opera, inteso come unico e definitivo, mentre ogni
significato non può non essere che temporaneo e cangiante, perché filtrato
dalla situazione storica del fruitore ed estrapolato dalla ricca polisemia
dell’opera. La quale viene trascurata nella ricerca dell’intenzione dell’autore
e del suo messaggio, mentre la natura dell’opera drammatica è falsata
dall’attribuzione all’autore di idee e valori presenti nel testo, a meno che
non si tratti di un’opera a tesi. Un altro procedimento datato, ma sempre
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