Page 26 - Shakespeare - Vol. 1
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buffa e meravigliosa, tenera e spietata: una sublimazione di luoghi comuni
della vita, mostrati con elegante sprezzatura.
Ma già in alcune di queste commedie, e non soltanto in quelle del 1604
(Tutto è bene e Misura per misura), non è certo la ragione a dominare la
scena. Emergono forze ambigue, la vis comica s’incupisce, si rivela come
un risvolto del tragico. Si pensi al Mercante di Venezia con le sue
simultaneità inconciliabili, Shylock tra i fasti della giustizia veneziana, gli
angiporti e le ville. O l’irrompere nel mondo verde (Frye), nel mondo del
desiderio, di motivi e lacerazioni tragiche (malinconia, ambiguità, odio,
sofferenza), e l’accentuarsi anche qui della danza sfuggente dei
sottomondi. Un esempio per tutti, l’amore: già nel Sogno d’una notte di
mezza estate la complicazione, il malessere, la malignità, non sono più
apporti esterni, errori evitabili, ma appaiono connaturati al fenomeno.
L’amore, lungi dall’essere «uno dei simboli positivi di Shakespeare» (Kitto)
appare una forza inumana, una possessione o una malattia («Povero
verme, ti sei infettata!», dirà Prospero della figlia che s’innamora), un
dèmone cosmico dalle molte facce: fecondo e distruttore, costante e
fragile, saggio e cieco, qualcosa che è insieme dedizione ed egoismo,
libertà fondatrice e assunzione demenziale di una dipendenza, un estro che
travolge lasciando la vittima innocente ma oggettivamente colpevole. E
sono aspetti che Shakespeare condivide coi greci.
Le tragedie e i “romances”
Il grande drammaturgo non mostra le cose com’egli crede che siano, ma
mostra uomini ciascuno dei quali vede le cose a suo modo. Così
Shakespeare non è patriottico o monarchico - se lo fu l’uomo non lo
sappiamo - ma ci mostra patrioti e monarchici, non esprime la propria
fede in Dio o meno, ma mostra uomini che credono o no: e nel suo mondo
Dio consiste nelle parole che di lui dicono gli uomini. Sono
l’approfondimento di questa modalità ostensiva - avvertita da tutti i
maggiori critici - e la maturazione dello stile, che segnano le grandi opere
scritte probabilmente nel 1600 e negli anni successivi, e la cui forza e
novità sembrano più il risultato di una crescita interiore e dell’emergere in
lui di istanze lente e profonde della coscienza rinascimentale, che la
conseguenza del passaggio da Elisabetta a Giacomo con le relative
variazioni a livello della cronaca. Sono le opere che già Wolfgang Goethe
sentiva all’altezza delle grandi tragedie greche, e non perché ci
comunicano profondi messaggi - anzi i messaggi che vi trovano i critici
suonano sempre abbastanza banali - ma perché sono grandi visioni
tragiche il cui senso coincide assolutamente con la forma. Per esse ogni
breve definizione sarebbe davvero insufficiente.