Page 34 - Nietzsche - L'Anticristo, Crepuscolo degli idoli, Ecce Homo
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         All'identica conclusione porta necessariamente una critica del concetto cristiano di Dio. -
      Un popolo che ha ancora fede in se stesso ha pure ancora il suo proprio Dio. In esso venera le
      condizioni grazie alle quali si afferma, le proprie virtù; proietta il proprio autocompiacimento,
      il proprio senso di potenza in un essere a cui poter rendere grazie per tutto questo. Chi è ricco
      vuole dare; un popolo fiero ha bisogno di un Dio per fare sacrifici... La religione, entro tali
      premesse, è una forma di gratitudine. Si è riconoscenti per se stessi: perciò si ha bisogno di un

      Dio. - Un simile Dio deve poter giovare e nuocere, deve poter essere amico e nemico, - lo si
      ammira nel bene come nel male. La castrazione contronatura di un Dio in un Dio unicamente
      del  bene  qui  sarebbe  al  di  fuori  di  ogni  ideale.  Il  Dio  cattivo  è  necessario  quanto  quello
      buono: non dobbiamo certo la nostra esistenza alla tolleranza, alla filantropia... Che cosa mai
      importerebbe di un Dio che non conoscesse ira, vendetta, derisione, astuzia, violenza, al quale
      magari non fossero neppure noti gli incantevoli ardeurs della vittoria e dell'annientamento?

      Non  si  riuscirebbe  a  comprendere  un  Dio  siffatto:  a  che  scopo  lo  si  dovrebbe  avere?  -
      Certamente, quando un popolo sta per tramontare; quando sente definitivamente dileguarsi la
      fede  nel  futuro,  la  propria  speranza  di  libertà;  quando  integra  nella  sua  coscienza  la
      sottomissione come prima utilità, le virtù dei sottomessi come condizioni per la sussistenza,
      allora anche il suo Dio deve mutarsi. Così esso diventa sornione, pavido, modesto, esorta alla
      «pace dell'anima», al non-più-odiare, all'indulgenza, all'«amore» sia per l'amico che per il
      nemico. Moraleggia continuamente, striscia nella caverna di ogni virtù privata, diventa Dio

      per  chiunque,  diventa  uomo  privato,  cosmopolita...  Una  volta  rappresentava  un  popolo,  la
      forza di un popolo, tutto ciò che v'è di aggressivo e di assetato di potenza nell'anima di un
      popolo: ormai non è più che il buon Dio... In realtà non esiste una diversa alternativa per gli
      dèi: o essi sono la volontà di potenza - e pertanto saranno dèi del popolo - oppure  invece
      l'inettitudine alla potenza - e allora diventano per forza buoni...


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         Allorché  decade  in  qualsiasi  forma  la  volontà  di  potenza,  si  ha  anche  puntualmente
      un'involuzione  fisiologica,  una  décadence.  La  divinità  della  décadence,  mutilata  nelle  sue
      virtù e nei suoi istinti più virili, diventa a quel punto, per forza di cose, Dio dei regrediti
      fisiologici, dei deboli. Costoro non chiamano se stessi i deboli, si definiscono «i buoni»...
      Ora si comprende, senza che ci sia più bisogno di farvi cenno, in quali momenti della storia la
      finzione dualistica di un Dio buono e di uno cattivo diventi possibile. Col medesimo istinto

      col quale degradano il loro Dio a «bene in sé», i sottomessi cancellano le buone qualità dal
      Dio dei loro vincitori; essi si vendicano sui propri padroni trasformandone il Dio in diavolo.
      - Il buon Dio, così come il diavolo: entrambe creazioni della décadence. - Come si può ancor
      oggi  concedere  tanto  alla  scempiaggine  dei  teologi  cristiani,  da  decretare  con  essi  che
      l'evoluzione del concetto di Dio da «Dio d'Israele», da Dio del popolo al Dio cristiano, al

      compendio  di  ogni  bene  sia  un  progresso?  -  Eppure  perfino  Renan  lo  fa.  Come  se  Renan
      avesse diritto alla scempiaggine! Ma se salta agli occhi il contrario! Quando le premesse della
      vita  ascendente,  quando  tutto  ciò  che  è  forte,  coraggioso,  dominatore,  superbo  viene
      soppresso dal concetto di Dio, quando passo dopo passo esso si degrada a simbolo di bastone
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