Page 204 - Nietzsche - L'Anticristo, Crepuscolo degli idoli, Ecce Homo
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l'ideale di uno spirito che gioca ingenuamente, vale a dire non intenzionalmente e per la sua
straripante pienezza e potenza con tutto ciò che fino ad ora è stato considerato santo, buono,
intoccabile, divino: per il quale ciò che il popolo pone a ragione al punto più alto della sua
scala di valori, significherebbe già pericolo, declino, abbassamento, o perlomeno
divertimento, accecamento, provvisorio oblio di sé; l'ideale di un benessere e di un benvolere
umano-sovrumano, che apparirà spesso inumano, ad esempio quando accanto a tutto ciò che è
stato finora la serietà terrena, accanto a tutta la solennità che fino ad oggi vi è stata in gesti,
parole, suoni, sguardi, morale e compiti, si pone come la loro vera e involontaria parodia - e
con il quale, malgrado tutto, si annuncia forse la grande serietà, il vero punto interrogativo,
con cui il destino dell'anima arriva alla svolta, la lancetta si sposta, la tragedia comincia...»
3.
- C'è qualcuno, che alla fine del XIX secolo abbia un'idea chiara di ciò che i poeti delle
epoche forti chiamavano ispirazione? Se non è così, voglio descriverla io. - Per quanto
minimo sia il residuo di superstizione che si conserva in sé, non si riesce, in realtà, ad evitare
la convinzione di essere semplici incarnazioni, semplici strumenti di voci altrui, semplici
medium di forze superiori. Il concetto di rivelazione, nel senso che all'improvviso, con
indicibile sicurezza e finezza, un qualcosa si fa visibile, udibile, un qualcosa che sconvolge e
travolge, fin nel profondo, questo concetto descrive semplicemente il dato di fatto. Si ode, non
si cerca; si prende, non si chiede chi offre; come una folgore si accende un pensiero, per
necessità, in una forma priva di tentennamenti, - io non ho mai avuto scelta. Un entusiasmo la
cui mostruosa tensione si scioglie in un fiume di lacrime nel quale il passo si fa
involontariamente ora precipitoso, ora lento; un totale esser-fuori-di-sé con la coscienza più
chiara di un numero infinito di brividi sottili e di irrigazioni fino alla punta dei piedi; una
profondità di gioia nella quale il colmo del dolore e delle tenebre non agisce come contrasto,
ma come voluto, come provocato, come un colore necessario all'interno di una tale
sovrabbondanza di luce; un istinto di rapporti ritmici che si distende in ampi spazi di forme -
la durata, il bisogno di un ritmo ampio e teso è quasi la misura della violenza dell'ispirazione,
una sorta di elemento equilibratore rispetto alla sua pressione e tensione... Tutto avviene in un
modo assolutamente involontario, ma come in una tempesta di sentimenti di libertà, di
indeterminatezza, di potenza, di divinità... L'involontarietà dell'immagine, della metafora è il
dato più notevole; non ci si rende più conto di che cosa sia un'immagine, che cosa una
metafora, tutto si offre come la più prossima, la più giusta, la più semplice espressione.
Sembra veramente, per ricordare le parole di Zarathustra, che le cose stesse si avvicinino e si
offrano alla metafora (- «qui tutte le cose giungono carezzevoli al tuo discorso e ti
blandiscono: poiché vogliono galoppare sulle tue spalle. Qui, ad ogni metafora, tu galoppi
verso una verità. Qui tutte le parole dell'essere e gli scrigni delle parole si spalancano per te;
qui ogni essere vuole diventare parola, ogni divenire vuol imparare a parlare da te - »).
Questa è la mia esperienza dell'ispirazione; non dubito che bisogna ripercorrere secoli
all'indietro per trovare qualcuno che possa dirmi «è anche la mia». -
4.
Poi, per un paio di settimane, giacqui malato a Genova. Seguì una malinconica primavera a