Page 93 - Keplero. Una biografia scientifica
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Keplero, sulla scia dei suoi contemporanei e dei suoi
predecessori, nei capitoli precedenti aveva cercato di aggirarli
con l’ausilio di sotterfugi matematici, quali equanti ed epicicli.
Da secoli, infatti, erano note le incongruenze tra gli assiomi
teorici e le osservazioni sperimentali. Eppure tali vincoli non
erano stati abbandonati, anche perché all’epoca erano
strettamente necessari per districarsi tra le difficoltà della
meccanica celeste.
Per riflettere su quanto costi a Keplero disfarsi del tutto di
questi «coercitivi» assiomi di riferimento, si prendano in esame
due problemi, da sempre alla base del mestiere dell’astronomo.
Un primo obiettivo che un astronomo può porsi è quello di
riuscire a prevedere lo spostamento di un oggetto celeste in un
dato intervallo di tempo. Secondo i canoni aristotelici, il
problema ha una soluzione piuttosto semplice: se i moti in gioco
sono di tipo uniforme (almeno da un determinato punto dello
spazio, l’equante), basteranno due misure, che stabiliscano
posizione iniziale e velocità, per determinare ogni successiva
posizione nello spazio. È come se mi domandassi: «Sapendo che
mi muovo su un binario a 100 chilometri all’ora, dove sarò tra
due ore?». Il problema si risolve con una semplice
moltiplicazione. Al contrario, se rinuncio a imporre a priori una
qualunque ipotesi sulla equazione del moto, allora il quesito
improvvisamente diventa insolubile: «Senza avere alcuna
informazione sul mio moto su un binario, dove sarò tra due
ore?».
La seconda questione, stravolta dalla scelta radicale di
Keplero, è relativa alla determinazione della forma dell’orbita di
un pianeta. Accettando i dogmi aristotelici, l’orbita sarebbe