Page 116 - Galileo Galilei - Sidereus nuncius ovvero Avviso Sidereo.
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questo  strumento  Galileo  poteva  a  stento  vedere  un  satellite  di  Giove,  quando  esso  era  lontano  dal
               pianeta di soli 15’’ d’arco. L’altro telescopio ha una lunghezza complessiva di 920 mm ed è largo 60
               mm.  L’obiettivo  è  originale,  mentre  l’oculare  è  stato  aggiunto  più  tardi,  probabilmente  nel
               diciannovesimo secolo. Nello stato attuale, esso ingrandisce di circa 20 volte e il suo potere risolutivo è
               di 10’’ d’arco. Il museo possiede anche una lente rotta, che tradizionalmente si dice appartenesse al
               telescopio con cui Galileo scoprì i satelliti di Giove e che egli inviò al granduca in regalo, insieme a una
               copia del Sidereus Nuncius a lui dedicato: “la quale mando a S.A.S. insieme con quello stesso occhiale
               col quale ho ritrovati i pianeti [cioè i satelliti di Giove] et fatte tutte le altre osservazioni, et lo mando
               così inornato et mal pulito quale me l’havevo fatto per mio uso; ma da poi che è stato strumento a sì
               grande scoprimento, desidero che sia lasciato nel suo primo stato” (bozza della lettera a Belisario Vinta
               del 19 marzo 1610, Opere di Galileo X, p. 297). La lente è biconvessa, ma una faccia è quasi piatta.
               Vasco Ronchi e Giorgio Abetti montarono questo obiettivo con l’oculare del primo tubo e ottennero un
               ingrandimento  di  18  e  un  potere  risolutivo  di  10’’  d’arco.  Con  questo  telescopio,  Galileo  avrebbe
               potuto vedere soltanto mezzo diametro lunare alla volta, ma avrebbe potuto distinguere i satelliti che
               erano a 20’’ d’arco da Giove e, in via eccezionale, a 10’’ d’arco, come egli scrive nel Sidereus Nuncius.
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                     Dato che dall’occhio partono i due raggi ECF ed EDG, l’angolo in E che sottende FG è il doppio
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                      Il  triangolo  ECD  è  ben  determinato  e  grazie  alle  tavole  dei  seni  si  può  determinare  quale
               lunghezza in CD è associata a un dato angolo visuale con vertice in E. In base a questo fatto, le diverse
               laminette  forate  a  distanze  diverse  diventano  un  filtro,  standardizzato  e  omogeneo  per  tutte  le
               osservazioni, per misurare le mutue distanze tra i corpi celesti vecchi e nuovi. Esse non riducono il
               campo visivo in misura apprezzabile. Per fare questo, esse dovrebbero essere posizionate ben oltre le
               lenti. Anche se Galileo avesse collocato il diaframma sull’obiettivo al principio sul “vetro colmo, che è
               il lontano dall’occhio, sia in parte coperto, et che il pertuso che si lascia aperto sia di figura ovale,
               perchè così si vedranno li oggetti assai più distintamente” (lettera di Galileo del 7 gennaio 1610, Opere
               di Galileo X, p. 278). Il diaframma era utile perchè limitava la quantità di luce in entrata riducendo in
               tal modo la confusione causata dall’aberrazione sferica e cromatica, non perchè aiutava a misurare la
               distanza tra le stelle. Egli lo ammise un paio di anni dopo nel suo Discorso sui corpi che stanno in su
               l’acqua e che in essa si muovono:  “non  avendo  io  allora  ritrovato  modo  di  misurar  con  istrumento
               alcuno le distanze di luogo tra essi pianeti, notai tali interstizi con le semplici relazioni al diametro del
               corpo di Giove, prese, come diciamo, a occhio, le quali, benchè non ammettano errore d’un minuto
               primo,  non  bastano  però  per  la  determinazione  dell’esquisite  grandezze  delle  sfere  di  esse  stelle”
               (Opere  di  Galileo  IV,  p.  64).  Per  il  problema  del  campo  visivo,  si  veda  JOHN  NORTH,  Thomas
               Harriot  and  the  First  Telescopic  Observations  of  Sunspots,  in  JOHN  W.  SHIRLEY  (ed.),  Thomas
               Harriot  Renaissance  Scientist,  Oxford,  Clarendon  Press  1974,  pp.  129-165,  pp.  158-160.  Per  la
               soluzione che trovò Galileo, si veda nell’Introduzione Il micrometro di Galileo.
                  81  Galileo non trovò mai il tempo per farlo, perché egli non poteva risolvere le proprietà ottiche del
               telescopio, malgrado le insistenti richieste di amici, specialmente Sagredo (si veda ad esempio le lettere
               di Sagredo a Galileo del 2 giugno, del 30 giugno e del 7 luglio 1612, Opere di Galileo XI, p. 315, pp.
               349-350,  p.  356).  Scrivendo  da  Rimini,  il  13  settembre  1616,  sei  anni  dopo  la  pubblicazione  del
               Sidereus  Nuncius,  Malatesta  Porta  diede  voce  al  proprio  disappunto:  “Quamdiu  animam  nostram
               torques? Promise V.S. nel suo Aviso Sidereo d’insegnare il modo vero di formare il telescopio, sì che
               potessero vedersi tutte le forme che sono alla natural vista invisibili; nè fino a questo giorno l’ha fatto”
               (Opere di Galileo XII, p. 281).
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                     Qui, nel Sidereus Nuncius, dà il 7 gennaio 1610 come il primo giorno in cui osservò Giove e due
               dei suoi satelliti, ma aveva già iniziato a osservare la Luna in ottobre. L’ultima osservazione di Giove
               riportata nel Sidereus Nuncius è in data 2 marzo 1610.
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                     Galileo utilizza il termine latino contemplatio, che può essere inteso sia in senso visivo, sia in
               senso mentale.
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