Page 464 - Galileo Galilei - Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo
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critica nella quale già ci si imbatte nel Saggiatore (Opere, VI, pp. 350-351). In Galileo
          la gravità è, come ci ha detto nella Giornata prima, una tendenza o inclinazione naturale
          delle parti omogenee a riunirsi con il loro tutto. Ma quale che sia questa tendenza, abbia
          o meno rapporto con il magnetismo di Gilbert, è comunque ben lungi dall’essere chiara.
          Anzi, nella sua confusione si apparenta a tal punto alle qualità occulte dell’ontologia
          rinascimentale, che Galileo preferisce non darsi a speculazioni in merito. È una nozione
          che  ha  il  vantaggio  di  non  coinvolgere  gli  elementi  centrali  della  cosmologia
          aristotelica,  ma  la  natura  della  gravità  continua  a  essere  tutt’altro  che  chiara.  Tra
          parentesi, neppure Newton fu mai soddisfatto della propria concezione. Comunque sia,
          in  Galileo  il  concetto  di  «gravità»  non  presenta,  come  è  ovvio,  quel  carattere  di

          universalità che avrà invece in Newton. Inoltre, Galileo non pervenne mai a sviluppare
          un  concetto  di  «forza»  generale,  tale  per  cui  la  caduta  dei  gravi  si  converta
          semplicemente  in  un  ulteriore  caso  di  moto  accelerato  (si  veda  in  merito  Richard  S.
          Westfall, «The Problem of Force in Galileo’s Physics», in C. Golino, a cura di, Galileo
          Reappraised, Univ. of California Press, 1966, pp. 67-95).
          Abbiamo già accennato in precedenza alla «virtù impressa», per cui vedasi la nota 23
          alla  Giornata  prima.  Quanto  al  termine  «natura»,  non  occorre  sottolineare  che,  in
          Aristotele, è un «principio di moto». Quanto alla causa del moto dei pianeti, pare che
          Aristotele  abbia  inizialmente  proposto  la  teoria  di  un  Dio  primo  principio  in  seguito
          diventato  primo  motore  immobile,  che  metterebbe  in  movimento  le  sfere  dei  corpi
          celesti. Ma sia lo sviluppo della fisica sia la crescente complessità dell’astronomia lo
          indussero  a  complicare  la  teoria,  moltiplicando  i  motori  e  attribuendone  uno  a  ogni
          sfera, eccetera. Di contro alla trascendenza reiteratamente affermata del primo motore,
          in Fisica, VII e VIII, Aristotele avanza una  visione meccanica in virtù della quale  il

          primo  motore  si  trova  alla  periferia  del  mondo,  continuo  con  esso,  e  lo  muove  per
          contatto.  In  Metafisica,  XII,  invece,  viene  accentuata  la  trascendenza  di  tale  primo
          motore che non muove meccanicamente, ma «come oggetto di desiderio». Orbene, non
          sembra che Aristotele sia riuscito a integrare coerentemente i vari problemi sorti da tale
          sviluppo, né che abbia toccato il nocciolo dei rapporti tra fisica e metafisica, e neppure
          gli aspetti più concreti dell’astronomia (si veda in merito W. Jaeger, Aristoteles, 1983,
          pp. 336-356 e 392-419; e P. Aubenque, 1974, pp. 342-354). Comunque, ciò che qui ci
          interessa mettere in risalto è che in Metafisica, XII, 8, 1073a 26-1073b 1, Aristotele dice
          che ciascuno dei movimenti propri di ogni pianeta «deve essere causato da una sostanza
          immobile in se stessa ed eterna… e senza magnitudine». Sono quelle che, nel Medioevo,
          divennero  «intelligenze»  e  che,  nel  cristianesimo,  furono  identificati  con  angeli
          «assistenti».  Si  veda  S.  Tommaso,  Summa  theologica,  I,  108  e  Dante  Alighieri,
          Convivio,  II,  6.  Abbandonata  la  cosmologia  aristotelica,  non  si  poteva  ormai  più
          concepire  il  primo  motore  come  responsabile  ultimo  del  moto  planetario,  e  come
          sappiamo Copernico considera causa del moto delle sfere celesti la forma sferica. Era
          ancora la «forma» nell’accezione aristotelica ad attuare il moto. E a essa senza dubbio
          allude  il  termine  «informante»  del  testo.  Il  problema  del  moto  dei  pianeti,  ciò
          nonostante,  divenne  particolarmente  arduo  quando,  dopo  Tycho  Brahe,  si  negò

          l’esistenza delle sfere nelle quali si riteneva fossero infissi, anche perché un moto di
          rotazione in situ, che era quello che presentavano le sfere, era stato sempre considerato
          più  naturale  e  pertanto  meno  problematico  di  quello  della  rivoluzione  intorno  a  un


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