Page 446 - Galileo Galilei - Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo
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fisse. Pertanto nel meccanismo aristotelico i due moti erano indipendenti. Nella tesi fatta
propria da Galileo, invece, non risulta chiaramente come potessero essere indipendenti
questi due moti della Terra. E, nella prospettiva aristotelica, questo sembra essere un
problema centrale che Galileo non vede o elude, e ne consegue che la replica galileiana
a questo punto non sembra essere molto calibrata.
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«Una cosa ignota con un’altra ugualmente ignota».
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Tanto l’argomentazione sulle differenze tra il caso della nave e quello della Terra,
quanto le osservazioni sul movimento dell’aria dimostrano che Galileo continua a
servirsi della teoria delle sfere elementari del mondo sublunare. L’elemento aria non è
«terrestre» e pertanto non partecipa per natura al moto della Terra, come fa invece una
pietra ancorché si trovi in aria. Ne deriva che, mentre per un «moderno» l’aria si muove
con la Terra perché, a causa della gravità, al pari di qualsiasi altro corpo, è attratta dalla
Terra, Galileo deve cercare un meccanismo di trascinamento dell’aria prossima alla
superficie terrestre e perviene all’irregolarità della superficie terrestre, vale a dire alle
montagne, che trascinano l’aria. Nella Giornata quarta, come vedremo, Galileo
svilupperà proprio questo punto, che risulta centrale non solo nella sua concezione
cosmologica, ma anche nella sua fisica. In realtà, la conservazione del moto nel caso
della nave e in quello della Terra non sono dello stesso tipo e, di conseguenza, non
sembra sufficiente parlare della «inerzia circolare» galileiana. Si può vedere, in
proposito, la nostra Introduzione, pp. 105 ss.
37 È inutile dire che questo è un testo che è stato al centro della polemica tra i teorici del
«platonismo galileiano», come Koyré, e i difensori di un Galileo empirista e
sperimentalista come Drake o Shapere. D’altro canto, non sembra il testo di un padre o
nonno del metodo sperimentale, ma si deve anche notare che, a quanto dice Galileo
nella Lettera a Francesco Ingoli in risposta alla «Disputatio de situ et quiete terrae» del
1624, molto tempo prima della pubblicazione del Dialogo aveva sostenuto: «io ne ho
fatto l’esperienza [di lasciar cadere un sasso dalla cima dell’albero di una nave], avanti
la quale il natural discorso mi aveva molto fermamente persuaso che l’effetto doveva
succedere come appunto succede: né mi fu difficil cosa il conoscer l’inganno loro»
(Opere, VI, p. 545). Non cessa di essere interessante l’insistenza di Galileo sulla propria
sicurezza, sulla sue fede teorica, prima dell’esperimento che, tuttavia, forse non
permette di respingere senz’altro l’apriorismo del passo del Dialogo quale un mero
espediente retorico. In ogni caso, la semplice affermazione che l’esperimento dimostra
che Salviati ha ragione non sarebbe apparso molto persuasivo a chi non si rendesse
conto del perché fosse così. Galileo desidera «rifar i cervelli degli uomini», ossia
insegnare a coloro che erano radicati nella teoria tradizionale a osservare e vedere
secondo uno schema concettuale diverso, rendendo evidente l’insufficienza del loro
empirismo ingenuo e della loro teoria tanto vicina al senso comune. Per questo, è più
utile l’analisi concettuale che compie qui Galileo, che non la semplice constatazione del
dato di fatto.
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Galileo cita un passo dell’Eneide, IV, 175, dove, parlando della Fama, Virgilio dice
che è il male più rapido e che la sua diffusione «si rafforza man mano che avanza».
«Mobilitate viget, virisque adqirit eundo»; nella traduzione di Annibale Caro, vv. 265-
267 (molte edizioni): «È questa Fama un mal, di cui null’altro / è più veloce; e com’più
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