Page 264 - Galileo Galilei - Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo
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Luna, bensì solo la luce secondaria.
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Favaro ha pensato che potesse trattarsi di Giovanni Battista della Porta, rifacendosi
alla Magia naturalis, 1589, p. 128. Sosio ha avanzato l’ipotesi che possa trattarsi di
Martin Horky che infatti, in una lettera a Keplero del 24 maggio 1610, lo informava di
disporre di uno strumento mediante il quale, non solo si poteva vedere meglio che con il
telescopio di Galileo, ma che permetteva anche di parlare con chiunque si trovasse a una
distanza di 15 miglia (Opere, X, p. 359).
86 «Macchie antiche», dice Galileo, ma non si trattava di una attribuzione di antichità
diversa a queste o a quelle macchie, bensì del fatto che alcune erano «note fin
dall’antichità» come spiega nel Sidereus nuncius. Là dove in quel testo comincia a
parlare delle osservazioni della Luna, commenta che, per comodità, divide la faccia
dell’astro in due parti, la più chiara e la più scura. Qui per l’esattezza si riferisce a una
distinzione che può applicarsi alla Luna piena e pertanto non si riferisce alla divisione
che introduce, al termine, tra la parte illuminata e la oscura della Luna, che ha
ampiamente commentato nel nostro testo. Nel Sidereus nuncius dice: «la più oscura
tinge, a guisa di nuvola, l’istessa faccia lunare e la dimostra macchiata. Ma queste parti,
men lucide e così grandi, facilmente si appresentano alla vista d’ognuno, e da tutti gli
antichi son state eternamente vedute; e perciò io le chiamo con nome di grandi, o
antiche, a differenza d’altre macchie, minori ma bensì spesse, che riempiono tutta la
superficie lunare, e principalmente la parte più lucida», Sidereus nuncius, dalla trad. it.
parziale di Vincenzo Viviani, in Galileo Galilei, La prosa, a cura di Isidoro Del Lungo e
Antonio Favaro, Sansoni, Firenze, 1957, pp. 63-64.
87 Già tra i presocratici c’era chi, come Filolao e Anassagora, sosteneva il carattere
terrestre della Luna (Diels-Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker, 44 A 20; 59 A 35;
59 A 77). Plutarco fece lo stesso nel suo famoso opuscolo De facie in orbe Lunae, VI,
932c, e Averroè avrebbe attribuito allo stesso Aristotele l’affermazione della «natura
terrestre della Luna» (In libris Aristotelis De Caelo commentarii, lib. II, summa II,
quaestio III, comm. 32. Cit. da Duhem, 1958, IX, p. 410) Come ricorda Sosio, a partire
dal Rinascimento questa tesi fu difesa da autori come Leonardo, Bruno e lo stesso Sarpi.
88 Su questo tema si veda la nota 32 della Giornata prima. Si ritrova qui il principio
generale del simile che attrae il simile, da Galileo esteso dalla Terra alla Luna. Ma,
come abbiamo detto nell’Introduzione, è chiaro che l’affermazione pone più problemi di
quanti non ne risolva. Da un lato, data la struttura elementare del mondo sublunare, non
risulta chiaro quale rapporto e comportamento abbiano le sfere elementari rispetto alla
Luna con la quale confinano. Inoltre, è ovvio che Galileo si imbatte qui in molti dubbi.
Si veda l’Introduzione, pp. 83-86.
89 Favaro informa che questo intervento di Simplicio era stato omesso per errore
nell’edizione originale. Ragion per cui in molti esemplari di questa fu aggiunto in un
cartoncino a stampa incollato al margine sinistro della pagina. Tuttavia, nel già
menzionato esemplare di Galileo, sta scritto per mano di questi: «SIMP. Adunque, per
vostro credere, ella farebbe un aspetto simile a quello che noi veggiamo nella Luna,
delle 2 parti massime», per poi continuare con l’intervento di Simplicio che compare nel
testo.
90 Qui Galileo formula una tesi aristotelica che del resto nel secoli XVI e XVII era
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