Page 111 - Galileo Galilei - Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo
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vede, Galileo si occupa qui del movimento di un uccello in volo; è evidente che un’aria
          che  si  muovesse  con  la  Terra  potrebbe  anche  trasportare  un  uccello.  Persiste  dunque
          l’ambiguità.
          163
              Koyré, 1966, p. 171.
          164
              Koyré, 1966, p. 239. Nella pagina seguente Koyré precisa che, in Galileo, i termini
          «naturale»  e  «violento»  non  hanno  più  un  significato  teorico,  ma  designano
          semplicemente «la distinzione di senso comune tra i movimenti che si producono da sé
          (la caduta, cioè il movimento dall’alto in basso) e quelli che il corpo compie solo in
          virtù  di  una  azione  esterna  (la  proiezione,  il  movimento  verso  l’alto)».  E  Koyré  lo
          considera  importante  perché  in  definitiva  ha  attinenza  con  le  carenze  dell’idea  di
          movimento inerziale in Galileo.
          165
              Clavelin, 1968, p. 238.
          166
              Koyré, 1966, p. 215.
          167
              Opere, VII, p. 174; anche p. 53.
          168
              Secondo gli autori che attribuiscono questo principio di inerzia limitato a Galileo,
          questi non sarebbe approdato al principio di inerzia «rettilinea» newtoniano perché la
          sua  fisica  non  si  sarebbe  liberata  dall’idea  di  gravità  e  perché  egli  si  sarebbe  sentito
          limitato dall’idea della finitudine dell’universo. Si veda, per esempio, Koyré, 1966, pp.
          255 ss; Clavelin, 1968, pp. 260 ss.
          169
              Clavelin, 1968, p. 240; Koyré, 1966, pp. 161 ss.
          170
               A  un  certo  punto  della  prima  giornata  Galileo  riassume  la  sua  argomentazione
          precedente, facendo notare che, in un universo ordinato, soltanto il movimento circolare
          è utile e adeguato, e soggiunge che né la rotazione sul proprio asse né il movimento di
          rivoluzione  intorno  a  un  centro  stabile  e  fisso  provocano  disordine.  «Imperocché  tal
          moto, primieramente,  è  finito  e  terminato,  anzi  non pur  finito  e  terminato,  ma  non è
          punto  alcuno  nella  circonferenza,  che  non  sia  primo  ed  ultimo  termine  della
          circolazione;  e  continuandosi  nella  circonferenza  assegnatagli,  lascia  tutto  il  resto,
          dentro e fuori di quella, libero per i bisogni d’altri, senz’impedirgli o disordinargli già
          mai. Questo, essendo un movimento che fa che il mobile sempre si parte e sempre arriva
          al termine, può, primieramente, esso solo essere uniforme: imperocché l’accelerazione
          del moto si fa nel mobile quando e’ va verso il termine dove egli ha inclinazione, ed il
          ritardamento  accade  per  la  repugnanza  ch’egli  ha  di  partirsi  ed  allontanarsi  dal

          medesimo  termine,  e  perché  nel  moto  circolare  il  mobile  sempre  si  parte  da  termine
          naturale,  e  sempre  si  muove  verso  il  medesimo,  adunque  in  lui  la  repugnanza  e
          l’inclinazione  son  sempre  di  eguali  forze;  dalla  quale  egualità  ne  risulta  una  non
          ritardata  né  accelerata  velocità,  cioè  l’uniformità  del  moto.  Da  questa  uniformità  e
          dall’esser  terminato  ne  può  seguire  la  continuazion  perpetua,  col  reiterar  sempre  le
          circolazioni, la quale in una linea interminata ed in un moto continuamente ritardato o
          accelerato non si può naturalmente ritrovare: e dico naturalmente, perché il moto retto
          che  si  ritarda,  è  il  violento,  che  non  può  esser  perpetuo,  e  l’accelerato  arriva
          necessariamente al termine, se vi è; e se non vi è, non vi può anco esser moto, perché la
          natura non muove dove è impossibile ad arrivare. Concludo per tanto, il solo movimento
          circolare poter naturalmente convenire a i corpi naturali integranti l’universo e costituiti
          nell’ottima disposizione», Opere VII, p. 56 (i corsivi sono miei).



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