Page 105 - Galileo Galilei - Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo
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e nel complesso anche in meno importanti, nessuno storico segue Drake.
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              Nell’introduzione  alla  sua  edizione  del  Dialogo,  Libero  Sosio  ipotizza  che  dalle
          lettere  del  1597,  dianzi  menzionate,  potrebbe  dedursi  che  dal  1590  Galileo  era  già
          copernicano,  ma  alcune  pagine  più  avanti,  dopo  aver  esaminato  il  contenuto  del  De
          motu, fa notare che questo non offre elementi sufficienti ad affermare che allora Galileo
          fosse già copernicano e insiste sul carattere problematico di tale opera. Sosio, a cura di,
          1970, pp. XXXV e XXXIX.
          91  Opere, I, p. 301.

          92  Opere, I, pp. 304-305. Come si vedrà, il riferimento è a un movimento di rotazione.
          93  Opere, I, p. 335, dove Galileo spiega che questa virtù impressa diminuisce perché si
          affievolisce  da  sola  e  scompare  dal  mobile,  come  succede  con  il  calore  di  un  ferro
          incandescente. Nelle note al testo si troveranno altre spiegazioni relative alle tradizioni

          della dinamica e della cinematica medievali, nonché su molti altri temi.
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             Opere, I, p. 373.
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             Opere, I, pp. 252-253. Il testo di Aristotele al quale qui si fa riferimento è appunto De
          caelo IV, 2, 308a, 34 ss. In esso Aristotele cita Platone (Timeo, 63c) come autore della
          teoria secondo la quale è più pesante il corpo che contiene un maggior numero di parti
          uguali di materia. Aristotele lo critica affermando che così «nulla si dice del peso e della
          leggerezza assoluti». Possiamo dunque pensare che in questo caso Galileo sia platonico,
          sebbene  risulti  evidente  che  tale  teoria  della  materia  è  compatibile  anche  con  la
          concezione atomistica.
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              «Inoltre,  quel  che  si  muove  di  moto  naturale  deve  muoversi  verso  qualcosa  di
          determinato; ma su ciò che sta in alto non c’è nulla di cui possiamo parlare. Qui c’è il
          terminus sursum (il termine verso l’alto), ma in verità possono esistere infiniti termini
          verso l’alto, e l’alto si estende all’infinito: quindi nulla può muoversi all’infinito di moto
          naturale  verso  qualcosa  di  indeterminato,  e  quindi  verso  l’alto.  Ma  non  può  dirsi  la
          stessa cosa del moto verso il basso; in basso, infatti, c’è un termine, unico, finito, anzi
          indivisibile, da cui un grave in caduta non può discostarsi nemmeno di un’unghia. E non
          si dica che esiste un termine verso l’alto, ossia il concavo lunare; ciò infatti è falso. In
          effetti il termine di un qualche moto dev’essere tale che ciò che da esso si discosta non
          possa più muoversi di quel moto di cui esso era il termine: ma il concavo della Luna non
          corrisponde a questa nozione; non è infatti termine del moto verso l’alto in modo tale
          che ciò che da esso si allontani non possa muoversi ancora più in su. Il centro, invece, è
          termine del moto verso il basso in modo tale che, qualunque cosa si allontani da esso,
          non  possa  muoversi  ulteriormente  verso  il  basso»,  Opere,  I,  p.  415.  Naturalmente,

          quell’«infiniti»  e  «all’infinito»  non  sono  una  precisa  indicazione  dell’infinità
          dell’universo  –  Galileo  infatti  sta  sviluppando  una  prova  per  reductio  ad  absurdum
          tipicamente aristotelica, sia detto di passaggio –, bensì l’impossibilità di determinare un
          punto univoco, analogo al centro, sulla circonferenza sulla quale invece ci sono infiniti
          punti.
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             Opere, VII, p. 146, è la prima di numerose affermazioni del genere. Già nella seconda
          lettera sulle macchie solari Galileo allude a questa convinzione circa la fluidità del cielo,
          come  egli  stesso  specifica  sul  margine  corrispondente,  Opere,  V,  p.  133.  Anche  nel
          Saggiatore  Galileo  afferma  la  fluidità  del  cielo,  là  dove  nega  la  realtà  del  terzo



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