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cosiddette superiori dell’uomo non sono che senso trasformato e indebolito. Anche il

          mondo, i cieli e le stelle sentono, dotati come sono di uno spirito animatore che li
          pervade e li muove. Ma l’universale « consenso » (cioè il reciproco sentirsi delle
          cose) non sarebbe possibile se al fondo di ogni essere non ci fosse il « senso di sé »:
          la  percezione  delle  cose  esterne  è  un  senso  aggiunto  (additus),  che  viene  a
          modificare l’intima autoconsapevolezza di ogni essere (sensus abditus).  Su questa
          sensibilità universale si innestano la scienza magica e la tecnica a essa conforme.

          Campanella distingue nel libro IV una magia divina, propria degli ispirati da Dio e
          non praticabile comunque senza il soccorso della grazia divina; una magia naturale,
          che comprende l’astrologia, la medicina e la fisica e coincide quindi con la scienza
          della  natura;  una magia  diabolica,  che  produce  col  soccorso  demoniaco  azioni
          altrimenti  impossibili.  Il  libro,  dopo  una  elencazione  sconcertante  di  ciò  che  può
          operare il mago sulla base della occulta simpatia di tutte le cose, si conclude con
          l’esaltazione della potenza dell’uomo, che riassume in sé l’universo e collabora con

          Dio all’unificazione del mondo.
          De natura deorum (La natura degli dei), dialogo filosofico in tre libri di Cicerone
          sul problema religioso, composto nel 45-44 a.C. e dedicato a Marco Bruto. In esso
          tre interlocutori, seguaci di diverse correnti filosofiche, trattano dell’essenza degli

          dei  e  dei  loro  rapporti  con  il  mondo  e  con  gli  uomini:  l’epicureo  Velleio,  pur
          ammettendone  l’esistenza,  nega  il  loro  intervento  nelle  vicende  umane;  lo  stoico
          Lucilio Balbo sostiene che in tutto il mondo, sia della natura sia degli uomini, appare
          la loro provvidenziale presenza; l’accademico Aurelio Cotta confuta l’una e l’altra
          tesi. Cicerone non esprime un personale giudizio in proposito e si limita a dire che la
          concezione stoica è la più verosimile. L’opera, che è giunta a noi mutila dell’ultima
          parte, ebbe notevole influsso non solo su scrittori pagani e cristiani posteriori, ma

          anche su autori moderni — ad esempio Hume, autore dei Dialoghi sulla religione
          naturale — e costituisce una fonte preziosa per la conoscenza del pensiero religioso
          degli antichi.
          De officiis (I doveri), trattato morale, in tre libri, di Cicerone, composto nel 44 a.C.,

          poco dopo l’uccisione di Cesare, e dedicato al figlio Marco. Nei primi due libri,
          sulla  scorta  del Perì  kathekontos  (Il  dovere)  di  Panezio,  nello  spirito  di  un
          equilibrato  stoicismo,  l’autore  tratta  dell’onesto  e  dell’utile;  nel  terzo  libro,  con
          maggiore originalità, dei conflitti fra l’onesto e l’utile, giungendo alla conclusione
          che il vero utile non è mai in contrasto con l’onesto. In questa che è la sua opera
          filosofica più personale, Cicerone tende a conciliare la speculazione dottrinale greca
          con la saggezza pratica romana.

          Deontologia o Scienza della morale (Deontology or Science of Morality), opera di
          Jeremy Bentham, pubblicata a Londra nel 1834, due anni dopo la morte dell’autore, e
          divisa in due parti: Teoria della virtù e Trattato della pratica della virtû. È l’opera
          più  importante  del  Bentham,  che  espone  qui  il  suo  utilitarismo*,  basato  sulla  «

          massimizzazione  »  dei  piaceri,  e  istituisce  la  sua  «  aritmetica  morale  ».  A  ogni
          piacere  e  a  ogni  dolore  riconosce  sette  differenze  quantitative:  intensità,  durata,
          certezza, prossimità, fecondità, purezza, estensione. In base a queste sette distinzioni
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