Page 902 - Dizionario di Filosofia
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della  tensione  morale  dell’uomo,  il  quale  nell’eroico  furore  attinge  la  piena
          consapevolezza  della  sua  partecipazione  al  divino.  L’eroico  furore  è  frutto  di  un
          impeto che « dall’aspetto della forma corporale s’innalza alla considerazione della
          spirituale  e  divina  »  ed  è  caratteristico  di  quegli  uomini  che  portano  in  sé  una
          fondamentale  aspirazione  alle  cose  divine.  Questa  ascesa  al  divino  non  significa
          tuttavia oblio delle cose fra le quali l’uomo vive, ma piuttosto capacità di meglio

          intendere il mondo e le cose stesse nelle quali Dio è presente come « anima de le
          anime,  vita  de  le  vite,  essenza  de  le  essenze  ».  Il  significato  della  vita  morale,
          pertanto, consiste in questo pieno possesso della realtà, intesa in tutta la drammatica
          tensione che ne costituisce il principio animatore.
          Dei delitti e delle pene, opera di Cesare Beccaria, pubblicata anonima nel 1764 a

          Livorno.  L’opuscolo,  che  sosteneva  recisamente  l’opportunità  della  soppressione
          della pena di morte e di una profonda riforma di tutto il sistema delle leggi criminali,
          provocò al suo apparire pochi vivaci contrasti (Andrea Fachinei, Antonio Giudici) e
          l’entusiastica  approvazione  degli  ambienti  colti  europei.  Esso  contribuì
          notevolmente alle riforme penali attuate alla fine del XVIII sec.

          De  ira  (L’ira),  trattato  di  Seneca  in  tre  libri,  composto  agli  inizi  del  regno  di
          Claudio (41 d.C.) e dedicato al fratello Novato. In polemica con i peripatetici, l’ira
          vi è considerata come una delle più basse passioni umane, dannosa privatamente e
          socialmente,  perché  promotrice  di  odio  e  di  violenza.  L’umanità  deve  estirparla
          come il morbo più grave della sua storia.

          De  la  causa  principio  et  uno  opera  di  Giordano  Bruno  (1584),  costituita  da  un
          proemio in forma epistolare, da cinque dialoghi e da alcuni componimenti in versi. In
          quest’opera l’autore indica chiaramente i capisaldi della sua concezione della realtà,
          da lui intesa come causa, principio e unità di se stessa. Rifiutata la trascendenza del
          pensiero medievale, il Bruno fa sua qui la concezione copernicana, che meglio di

          quella aristotelica sembra integrare il suo originale punto di vista per il quale non
          esistono  più  un  centro  e  una  periferia  dell’Universo  in  senso  assoluto.  La  realtà,
          autonoma e infinita, è concepita dal Bruno come un organismo vivente che ha in se
          stesso il principio per articolarsi e determinarsi nelle innumerevoli forme della vita.
          Questa « essenza » del mondo è anche oggetto dell’ammirata conoscenza del filosofo
          e come tale diventa il Bene e il Vero e produce quello stato di eroico furore che è
          autentico slancio razionale.

          De l’infinito universo et mondi,  dialogo  di  Giordano  Bruno,  scritto  in  italiano  e
          pubblicato a Londra nel 1584. L’autore lo considerava come l’espressione suprema
          del suo pensiero, dichiarando che gli altri due componenti della trilogia dei dialoghi
          metafisici  italiani,  la Cena  de  le  ceneri*  e  il De  la  causa  principio  et  uno*,

          andavano  visti  rispettivamente  come  preprologo  e  prologo  ad  esso.  Nei  cinque
          dialoghi,  preceduti  da  una  lettera  proemiale,  di  cui  l’opera  è  composta,  viene
          sviluppato in tutte le sue implicazioni il concetto della infinità dello spazio, il quale
          deve  essere  inoltre  pieno  in  ogni  sua  parte.  L’idea  della  finitezza  del  cosmo  urta
          contro  l’impossibilità  di  pensare  il  nulla,  che  dovrebbe  fungere  da  limite.  Entro
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