Page 861 - Dizionario di Filosofia
P. 861

Alessandro la personalità di Pietro Verri risulta non priva di contraddizioni, e il suo
          pensiero  non  si  configura  nella  forma  propria  delle  grandi  sintesi  filosofiche.
          Tuttavia  più  che  in  nessun  altro  pensatore  italiano  del  suo  tempo  in  lui  si  trova
          quell’adesione  entusiastica  e  tuttavia  razionalmente  lucida  al  processo  di
          rinnovamento della società in cui consistette la forza dell’Illuminismo.

          Bibliogr.: Del piacere e del dolore e altri scritti, a cura di R. De Felice, Milano
          1964 (con bibliografia). Su V.: N. Valeri, Pietro Verri, Milano 1937; R. Steiner, Le
          «  Meditazioni sulla felicità  » e  il  significato  della  loro  doppia  redazione  nella
          storia del pensiero di Pietro Verri, « Giornale storico della letteratura italiana »,
          1967; sull’illuminismo lombardo in generale sono da vedere: Aa.  Vv., La cultura
          illuministica  in  Italia,  a  cura  di  M.  Fubini,  Torino  1964;  F.  Venturi, Settecento

          riformatore, Torino 1969.
          VICO  (Giambattista),  filosofo  italiano  (Napoli  1668-1744).  Terzultimo  degli  otto
          figli di un libraio poverissimo, ebbe un’infanzia grama, funestata quando aveva circa
          sette  anni  da  una  caduta  che  rischiò  di  compromettere  per  sempre  le  sue  facoltà

          mentali.  Dalla  frattura  del  cranio  guarì,  ma  il  corpo  rimase  misero  e  gracile  e  la
          perenne minaccia della tisi gli valse poi il nomignolo di « maestro Tisicuzzo ». Andò
          a scuola, ma studiò soprattutto da solo e a buona ragione gli amici dell’età matura lo
          chiamarono « autodidascalo ». A diciotto anni difese con successo il padre in una
          causa, ma la precoce esperienza bastò a convincerlo di non essere tagliato per la vita
          forense.  Accettò  perciò  con  gioia  l’offerta  di  curare  l’educazione  dei  figli  del
          marchese Rocca e in tale servizio passò nove anni (1686-1695). Non mancarono in
          quel  periodo  i  contatti  con  il  mondo  culturale  napoletano,  e  in  particolare  con  i

          rappresentanti  di  un  nuovo  eclettismo,  nel  quale  operavano  come  fermenti
          rinnovatori il cartesianesimo, lo scetticismo libertino, il gassendismo, insieme con
          gli echi del naturalismo rinascimentale e della nuova scienza galileiana. Della lettura
          di  Lucrezio  è  un  riflesso  la  canzone Affetti  di  un  disperato  (1693),  il  cui  cupo
          pessimismo restò tuttavia un momento isolato nella vita spirituale del Vico. Nel 1699

          vinse la cattedra di eloquenza nell’università di  Napoli e si sposò con una donna
          analfabeta, che gli dette otto figli. Fra i travagli di una esistenza tribolata Vico portò
          avanti l’assiduo colloquio con i suoi « quattro auttori » (Platone, Tacito, Bacone e
          Grozio),  traendone  i  primi  frutti.  Delle  «  orazioni  inaugurali  »,  con  le  quali  egli
          apriva di solito i suoi corsi, quella del 1708, intitolata De nostri temporis studiorum
          ratione,  costituisce  un  documento  importante  della  sua  maturazione  filosofica.
          Contrapponendosi ai « novatori », che esaltano l’esclusivo valore educatorio delle

          matematiche, egli addita la perenne funzione formativa della poesia e della storia,
          senza  le  quali  l’animo  giovanile  rischia  di  cader  preda  del  nichilismo  scettico.
          L’opera conclusiva di questo periodo di formazione è Dell’antichissima sapienza
          degli Italici* (1710). Gli anni fra il 1717 e il 1732 furono i più tormentati e i più
          fecondi della vita del  Vico.  Subì l’umiliazione di vedersi posposto a un altro nel
          concorso per la cattedra di diritto romano (1723), la prima Scienza Nuova* (1725)

          fu  accolta  dall’indifferenza  generale.  In  questo  stesso  periodo  apparvero  il De
          universi  iuris  uno  principio  et  fine  uno  (1720),  il De  constantia  iurisprudentis
   856   857   858   859   860   861   862   863   864   865   866