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poco prima dimostrato.

          VÈRNIA (Nicoletto), filosofo italiano (Chieti 1420 circa -  Vicenza 1499).  Insegnò
          nello Studio di Padova dal 1465 alla morte, avendovi come collega Pomponazzi e
          come  discepoli,  tra  gli  altri,  Agostino  Nifo  e  Pico  della  Mirandola.  Seguace
          dell’averroismo  allora  dominante  nello  Studio  padovano,  curò  un’edizione  delle

          opere  di  Aristotele  con  il  commento di  Averroè  (1483).  Sostenne  l’unicità
          dell’intelletto  (posizione  peraltro  abbandonata  dopo  una  condanna  del  vescovo  di
          Padova), l’autonomia della fisica rispetto alla metafisica, la superiorità della scienza
          della natura sulle scienze dell’uomo.
          Bibliogr.:  B.  Nardi, Saggi sull‘aristotelismo padovano dal sec.  XIV al sec.  XVI,

          Firenze  1958;  E.  Garin, La  cultura  filosofica  del  rinascimento  italiano,  Firenze
          1961.
          VERBI (Pietro), filosofo, economista e uomo politico italiano (Milano 1728 - 1797).
          Di nobile famiglia, dopo aver frequentato a Milano le scuole dei barnabiti e a Roma

          il Collegio Nazareno concluse gli studi a Parma al collegio dei Nobili. Anche per
          dissapori col padre si arruolò nel 1759 nel reggimento Clerici per prendere parte
          alla guerra dei Sette anni, sulla quale lasciò un interessante diario in forma di lettere.
          Ma già nel 1760 era di ritorno a Milano e subito si dedicò tutto agli studi filosofici,
          economici  e  letterari  e,  in  aperta  polemica  con  il  conservatorismo  della  vecchia
          aristocrazia, fu il promotore della battagliera  Società dei  Pugni e del periodico Il
          Caffè.  Nel  1764  entrò  nella  pubblica  amministrazione;  nominato  consigliere  della

          giunta, propose, per una migliore regolamentazione delle imposte, di sopprimere il
          sistema  di  esazione  per  mezzo  di  appaltatori  (fermieri),  e  la  proposta,  anche  se
          applicata gradualmente, fu delle più importanti attuate nella Lombardia absburgica.
          Ma nel 1786, con la soppressione del Consiglio camerale, dovette lasciare i pubblici
          uffici.
          Soltanto con l’avvento dei Francesi, nel 1796, tornò alla politica attiva ed entrò a far

          parte  della  municipalità,  dove,  pur  tra  contrasti  e  amarezze,  si  impegnò
          coraggiosamente affinché venisse instaurato un regime politico conforme agli ideali
          di  libertà  costituzionali.  A  parte  pochi  scritti  giovanili  di  carattere  scherzoso,
          l’attività  letteraria  del  Verri  fu  tutta  caratterizzata  da  una  viva  partecipazione  a
          problemi  di  scottante  attualità  politica,  economica,  sociale,  e  la  sua  filosofia  fu
          strettamente  legata  al  progresso  delle  idee  promosso  dall’Illuminismo  francese,
          rifuggendo  da  ogni  sorta  di  metafisica  e  facendo  convergere  i  suoi  interessi  sui

          problemi  della  felicità  pubblica  e  privata,  del  piacere,  del  dolore,  in  sostanziale
          accordo con le tesi del sensismo. Pubblicò nel 1763 a Livorno le Meditazioni sulla
          felicità,  che  profondamente  rielaborate  riapparvero  nel  1781  col  titolo Discorso
          sulla felicità, nel 1768 scrisse le Memorie storiche sulla economia pubblica dello
          Stato  di  Milano,  pubblicate  postume;  nel  1769 Delle  leggi  vincolanti
          principalmente il commercio dei grani  e  le Osservazioni sulla tortura, ambedue

          pubblicate  postume;  diede  alle  stampe  nel  1771  le Meditazioni  sull’economia
          politica e nel 1773 il Discorso sull’indole del piacere e del dolore. Da questa così
          intensa  attività  di  scrittore  e  dall’appassionante Carteggio  tenuto  col  fratello
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