Page 697 - Dizionario di Filosofia
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conoscenza che riproduce (« ripresenta ») i dati della percezione, conservando con

          l’oggetto  quella  somiglianza  che  invece  non  ha  più  luogo  nella  conoscenza
          intellettiva vera e propria, e in questa accezione è di origine scolastica. La differenza
          tra  l’operazione  del  rappresentare  e  quella  del  concepire  risulta  dalla  nota
          osservazione che si può « avere il concetto » di un poligono regolare con un numero
          grandissimo  di  lati,  senza  riuscire  tuttavia  a  rappresentarselo  (cioè  a  «  vederlo  »
          mentalmente). In Cartesio e Locke il termine indica una qualunque idea riferibile a un

          oggetto, reale o immaginario, e così anche in Berkeley e in Hume. Ma per i primi due
          sorge  il  problema  di  come  giustificare  e  garantire  la  corrispondenza  della
          rappresentazione con l’oggetto reale, problema che non sussiste ovviamente quando
          l’oggetto dell’attività rappresentativa sia concepito come interno alla mente stessa.
          Così Hume può affermare che le idee semplici, le quali rappresentano le impressioni
          originarie,  le  riproducono  sempre  sia  pure  in  forma  meno  vivace.  Per  Leibniz  le
          monadi  sono  dotate  di  forza  rappresentativa  e  ciascuna  di  esse  contiene  in  sé  la

          rappresentazione  dell’universo.  Hegel  definisce  la  rappresentazione  come  «  il
          contenuto  che  viene  offerto  dall’esperienza  »  e  la  colloca  a  metà  strada  tra
          l’intuizione empirica e il pensiero. Per Schopenhauer il mondo che ci si offre nelle
          forme  dello  spazio,  del  tempo  e  della  causalità  è  tutto  rappresentazione,  e  la  sua
          realtà  differisce  da  quella  del  sogno  solo  per  il  diverso  grado  di  continuità  e  di
          connessione.  Croce  infine  usa  di  solito  rappresentazione  come  equivalente  di

          intuizione.
          RĀSA. Voce sanscrita che indica l’essenza del gusto, che costituisce una delle sei
          regole (sadanga) dell’estetica indiana.
          RAVAISSON-MOLLIEN  (Félix  LACHER),  filosofo  francese  (Namur  1813  -  Parigi

          1900).  Compì  gli  studi  prima  a  Parigi  poi  a  Monaco,  dove  seguì  le  lezioni  di
          Schelling.  Nel  1837  raggiunse  la  notorietà  con  un Saggio  sulla  metafisica  di
          Aristotele,  che  fu  pubblicato,  con  l’aggiunta  di  un  secondo  volume,  nel  1846.
          Addottoratosi  nel  1838  con  una  celebre  tesi  sull’Abitudine*,  dopo  una  prima
          esperienza di insegnamento all’università di Rennes, per l’ostilità dell’onnipotente

          V.  Cousin  dovette  abbandonare  il  mondo  accademico  e  ripiegare  sulla  carriera
          burocratica,  divenendo  prima  (1840)  ispettore  generale  delle  biblioteche  e  poi
          ispettore generale dell’istruzione superiore (1859-1888).
          Il pensiero di Ravaisson, che si svolge nell’ambito dello spiritualismo francese della
          seconda  metà  dell’Ottocento,  se  da  una  parte  si  riallaccia  direttamente
          all’insegnamento  di  Maine  de  Biran,  dall’altra,  per  le  istanze  vitalistiche  in  esso
          contenute,  anticipa  alcuni  dei  temi  fondamentali  delle  filosofie  di  Lachelier,  di
          Boutroux  e  di  Bergson.  Opere  principali,  oltre  a  quelle  citate: Rapporto  sullo

          stoicismo  (1851), Rapporto  sulla  filosofia  in  Francia  nel  XIX  secolo  (1868),
          Morale e Metafisica (1893). Ravaisson coltivò altresì l’archeologia e pubblicò un
          volume sulla Venere di Milo (1871).

          Bibliogr.: In italiano sono disponibili: Saggi filosofici, a cura di A. Tilgher, Roma
          1917; su R.: J. Dopp, F. Ravaisson-Mollien, Lovanio 1933; C. Valerio, Ravaisson-
          Mollien  e  l’idealismo  romantico  in  Francia,  Napoli  1936;  D.  Janicaud, Une
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