Page 666 - Dizionario di Filosofia
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necessariamente falso. Come categoria ontologica il possibile occupa un posto
essenziale nelle filosofie che concepiscono la realtà come mobile e aperta, mentre
costituisce un corpo estraneo, da eliminare o da neutralizzare, nelle concezioni del
mondo che assolutizzano l’esistente e lo identificano perciò tutto col necessario. Nel
pensiero classico la critica più radicale del possibile emerge perciò da posizioni di
pensiero ispirate all’eleatismo. L’« argomento dominante » di Diodoro* Crono è un
esempio tipico di tale atteggiamento. Nella metafisica di Aristotele, al contrario, la
possibilità (come « potenza », in gr. dýnamis) è un momento costitutivo essenziale di
tutta la realtà, fatta eccezione per Dio, la cui eleatica assolutezza di « atto puro » non
tollera di nuovo la « imperfezione » del possibile. Uno dei grandi problemi del
pensiero cristiano fu in seguito quello di come inserire coerentemente la dimensione
del possibile in una teologia in larga misura costruita con le categorie della
ontologia greca. L’antitesi si ripresenta nella metafisica di Spinoza al confronto con
quella di Leibniz: per il primo tutto ciò che è possibile in Dio è per ciò stesso
necessario, mentre secondo Leibniz Dio ha scelto, fra gli infiniti mondi presenti nella
sua mente infinita, il « migliore dei mondi possibili ». In realtà anche nella
formulazione leibniziana il possibile, così assolutizzato, diventa, nonostante tutto,
necessario. Per Kant il possibile è una nozione a priori, che ha il suo fondamento in
una delle categorie della modalità. Approfondimenti significativi del concetto di
possibile sono stati operati in seguito da un lato dagli esistenzialisti a partire da
Kierkegaard, dall’altro dai pensatori moderni più influenzati dalle metodologie della
ricerca scientifica. Questi ultimi (Dewey, Reichenbach, ecc.) tendono in genere a
identificare il possibile con ciò che si presume verificabile, entro un ambito
storicamente determinato di conoscenze e di metodi di indagine.
post rem, loc. lat. che significa dopo la cosa, usata nella terminologia scolastica a
indicare quelle soluzioni del problema degli universali* secondo le quali questi
esistono nella mente umana o come semplici nomi (flatus vocis) [v. NOMINALISMO] o
come concetti predicabili dalla realtà (v. CONCETTUALISMO).
POSTULATO. Proposizione che si chiede (« si postula ») di ammettere come vera, per
poter fondare su di essa una dimostrazione o un qualunque ragionamento deduttivo.
La distinzione fra postulato e assioma è chiarita nella logica di Aristotele ed è
accolta quasi negli stessi termini negli Elementi di Euclide: gli assiomi sono «
nozioni comuni » evidenti di per sé e indimostrabili, mentre i postulati non sono di
evidenza immediata (perciò si deve « postulare » il loro accoglimento), fissano le
condizioni di esistenza di determinati enti e potrebbero anche, strutturando
diversamente l’ordine delle proposizioni, essere dimostrati. La distinzione euclidea
si è conservata nel linguaggio filosofico (Kant, per es., parla di « assiomi
dell’intuizione » e di « postulati della ragione pratica »), pur con qualche inevitabile
complicazione rispetto alla nettezza originaria. Nella matematica moderna, che non
ammette più verità « evidenti di per sé » e che arriva a concepire le sue costruzioni
come sistemi « convenzionali » di proposizioni, rispondenti a determinate
condizioni, la distinzione fra postulato e assioma ha perduto ogni significato. (V.
anche ASSIOMA.)