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Circa la successione cronologica degli ultimi dialoghi, posteriori alla Repubblica,

          c’è  un  accordo  quasi  unanime  tra  gli  studiosi.  Essi  sono  nell’ordine  della  loro
          composizione:  il Fedro*,  il Parmenide*,  il Teeteto*,  Il  sofista*,  Il  politico*,  il
          Timeo*, il Crizia*, il Filebo* e Le leggi*. Da notare che in questi dialoghi, tranne
          che nel Fedro, nel Teeteto e nel Filebo, Socrate non è più l’interlocutore principale;
          perciò anche da un punto di vista esteriore Platone mostra chiaramente di essersi del
          tutto  distaccato  dalla  problematica  socratica,  e  la  sua  attenzione  è  rivolta

          principalmente a sottoporre a revisione critica la sua teoria delle idee e a risolverne
          le interne difficoltà. Da un lato il mondo ideale, che per influenza del pensiero di
          Parmenide  era  stato  concepito  in  netto  contrasto  con  il  mondo  sensibile  —  come
          verità opposta ad apparenza, come essere opposto a non essere —, rischia di essere
          considerato come del tutto estraneo all’esperienza, senza possibilità di determinare
          lo sviluppo conoscitivo ed etico dell’uomo: se infatti le idee vengono definite nella
          loro unità e purezza assolute, non si vede in che modo possano stare in relazione tra

          loro,  con  il  mondo  sensibile  e  con  la  mente  umana  (Parmenide).  D’altro  lato,  le
          critiche mosse alla dottrina eracliteo-protagorea della conoscenza come sensazione
          rimangono valide e convincono Platone a non abbandonare la teoria delle idee, ma
          solo a riesaminarla e ad approfondirla (Teeteto). Occorre quindi una mediazione fra
          il mondo ideale dell’essere e la conoscenza umana: per questa esigenza la dialettica
          si  trasforma,  in  quanto  più  che  al  procedimento  dell’unificazione  si  dà  rilievo  al

          procedimento  della  differenziazione,  che  permette  di  indicare  le  relazioni  di
          inclusione  e  di  esclusione  in  cui  si  trova  ciascuna  idea  con  le  altre  (Il  sofista).
          Discendendo  quindi  dall’unità  alla  molteplicità,  si  attribuisce  una  qualche  realtà
          anche  alle  forme  «  miste  »,  cioè  al  finito  inteso  come  proporzione  e  misura  e
          governato dal numero (Il politico, Filebo). Anche in campo etico questo mutamento
          di prospettiva appare evidente: mentre infatti nel Fedone il fine dell’uomo era in un
          completo distacco dal corpo e dai sensi, nel Filebo invece esso è in una « vita mista

          secondo misura », in una mescolanza di piacere e di uso dell’intelligenza.
          Il mutato atteggiamento di Platone non gli fa più considerare con distacco il mondo
          della  natura:  nel Timeo,  pur  senza  condividere  il  naturalismo  dei  presocratici,
          Platone accoglie da essi molte dottrine, rielaborandole e fondendole in una generale
          concezione finalistica, che si contrappone nettamente al meccanicismo di Democrito.

          Ancora una volta egli sceglie la forma espositiva del mito: un demiurgo, ossia un
          divino artefice, ha plasmato e ordinato il mondo e, prendendo a modello le idee, ha
          ridotto  l’informe  originario  alla  regola  e  alla  misura.  Così  anche  il  mondo  della
          natura è una realtà mista, in cui al mutevole e al transeunte si mescola la razionalità
          delle forme pure, ed essendo organicamente concepito e disposto possiede una sua
          anima, che è insieme molteplice e una. Infine, anche in campo politico Platone non ha
          più di mira il modello ideale dello Stato, che nella Repubblica si poneva al di là
          dell’esperienza  umana,  ma  propone  (nelle Leggi)  una  costituzione  politica  in  cui,

          tenendo conto delle leggi che precedentemente hanno governato gli Stati, si possano
          contemperare  secondo  una  giusta  misura  l’esigenza  dell’autorità  e  quella  della
          libertà,  ossia  una  mescolanza  di  monarchia  e  di  democrazia. L’Epistola  settima
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