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separazione della luce dalla tenebra. I manichei erano divisi in due classi: uditori o

          neofiti, e perfetti. Solo questi ultimi realizzano pienamente in loro la divisione dei
          due principi, con frequenti e lunghi digiuni, con l’astensione da ogni violenza, con
          l’astinenza carnale.
          Il  manicheismo  è  conosciuto  oggi,  oltre  che  da  una  tradizione  indiretta  costituita
          dalle  opere  polemiche  di  sant’Agostino,  da  scritti  di  filosofi  neoplatonici  e  da
          qualche testo siriaco e arabo, da copiosi resti della letteratura manichea, rinvenuti

          negli scavi in Asia centrale, in Egitto e in Algeria.
          Il manicheismo si presentò come religione universale. Si diffuse specialmente nella
          Persia, nell’India, nel  Tibet, nella  Cina, nel  Turchestan e in occidente nell’Africa
          settentrionale, nell’Italia meridionale e nella Spagna. In Europa esso si continuò, a
          quanto  sembra,  nelle  dottrine  dei  bogomili  e  dei  catari,  che  si  ricollegano  a  una
          visione dualistica del mondo.

          MANISMO  (dal  lat. manes,  spiriti  dei  morti).  Teoria  che  spiega  le  origini  della
          religione  come  evoluzione  di  un  originario  culto  dei  morti.  Già  implicita  nelle
          dottrine  di  Evemero  di  Messina  (v. EVEMERISMO)  secondo  cui  gli  dei  erano
          originariamente uomini, poi divinizzati, essa ebbe assertori soprattutto nella seconda
          metà del XIX sec., in clima positivistico, con Fustel de Coulanges (La città antica),

          con E. B. Taylor (La cultura primitiva) e soprattutto con Herbert Spencer (Principi
          di sociologia) che ne fece la trattazione più sistematica.  Questa teoria, però, alla
          luce della moderna filosofia della religione appare un’analisi senz’altro parziale che
          non tiene conto di tutte le componenti che contribuiscono alla formazione dell’idea di
          essere trascendente.
          MANNHEIM  (Karl),  sociologo  tedesco  (Budapest  1893  -  Londra  1947).  Già

          professore  nelle  università  di  Heidelberg  e  di  Francoforte,  dopo  l’avvento  del
          nazismo dovette emigrare in Inghilterra, dove insegnò pedagogia alla London School
          of Economics. Nel pensiero del Mannheim conservano un rilievo tutto particolare la
          dottrina  marxistica  dell’ideologio  e  la  concezione  weberiana  della  funzione
          dell’intellettuale  nella  società.  Se  l’ideologia  è  la  universalizzazione  più  o  meno

          mistificata degli interessi di una classe sociale in un determinato momento storico, il
          compito dell’intellettuale è appunto quello di superare l’ideologia, elaborando una
          interpretazione obiettiva e scientifica della società e cogliendo il nodo dei conflitti
          di classe in tutta la sua articolata complessità. L’atteggiamento « al di sopra della
          mischia  »  e  l’aspirazione  a  comprendere  la  totalità  organica  della  società  sono  i
          tratti  caratteristici  della  «  sociologia  del  sapere  »  (Wissenssoziologie)  del
          Mannheim. La sua preoccupazione di uscire dalla parzialità delle posizioni di classe
          è il riflesso intellettuale, « ideologico » anch’esso, delle scelte politiche tradizionali

          della socialdemocrazia tedesca. Opere principali: Il problema di una sociologia del
          sapere (1925), Ideologia e utopia (1929), I compiti attuali della sociologia (1932),
          Diagnosi del nostro tempo  (1943), Libertà, potere e pianificazione democratica
          (postumo, 1950), Sociologia sistematica (postumo, 1957).

          Bibliogr.: A. Santucci, Forme e significati dell’utopia in K. Mannheim, in Filosofia
          e sociologia, Bologna 1954; P. Rossi, K. Mannheim e la sociologia del sapere, in
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