Page 496 - Dizionario di Filosofia
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linguaggio si preoccuparono prevalentemente di spiegare il fondamento della
connessione fra il segno e la realtà designata. Per alcuni tale legame è
convenzionale: nel Cratilo platonico la tesi convenzionalistica (la quale peraltro era
stata proposta assai chiaramente anche da Parmenide e da Gorgia) è presentata nella
formulazione attribuita al megarico Ermogene: « I nomi sono convenzioni e sono
chiari per quelli che le hanno stipulate, in quanto essi conoscono le cose cui
corrispondono, e in ciò consiste appunto la giustezza dei nomi ». Per altri il legame
fra segno linguistico e realtà è invece naturale. Questa naturalità può essere intesa in
una forma ingenua e immediata, affermando che esiste un’affinità fisico-fonetica
originaria fra il nome e la cosa. Ma già Platone osservava, sempre nel Cratilo, che
altro è rifare il verso ad un animale e altro è nominarlo, mentre per parte sua la
scienza glottologica moderna ha dimostrato che l’elemento onomatopeico e mimetico
in genere ha un peso tutt’altro che rilevante nella formazione delle radici
linguistiche. La « naturalità » del linguaggio può essere però anche concepita non
come presunta somiglianza fisica fra il singolo segno e la cosa, ma come
corrispondenza fra la struttura sintattica del discorso umano e l’ordine oggettivo del
mondo. In questo senso la intesero Aristotele e gli stoici, e in questo senso l’hanno
riproposta alcuni filosofi moderni, come B. Russell. Sempre facendo riferimento ad
un linguaggio rigorosamente formalizzato Wittgenstein ha espresso molto
chiaramente lo stesso concetto nel Tractatus logico-philosophicus: « Alla
configurazione dei segni semplici nella proposizione corrisponde la configurazione
degli oggetti nella situazione ». D’altra parte, se il linguaggio è specchio e simbolo
della realtà e non una convenzione arbitraria dei parlanti, è legittimo ritenere che ad
esso ineriscano valori e sensi non immediatamente trasparenti nell’uso abituale:
quando Heidegger chiama il linguaggio « casa dell’Essere », vuole dire che al
mistero dell’Essere ci si avvicina interrogando il linguaggio e strappando ad esso i
suoi significati riposti. Una terza concezione considera il linguaggio come metafora:
esso nasce dalla rivelazione operata dalla fantasia di legami, affinità e
corrispondenze. Questa dottrina, formulata con particolare forza suggestiva dal Vico,
è stata poi ripresa e portata a compiutezza sistematica dal Croce. Essa implica
l’identità qualitativa di linguaggio e poesia e la conseguente riduzione della
linguistica all’estetica. Tuttavia l’orientamento prevalente della filosofia
contemporanea sembra poco favorevole a simili impostazioni riduttive. La
complessità e la varietà degli usi del linguaggio (simbolico, informazionale,
descrittivo, cognitivo, emotivo, evocativo e via dicendo) rendono parziale e
insoddisfacente ogni reductio ad unum, e forse un’indagine orientata in tal senso è
anche metodologicamente viziata. Il filosofo moderno del linguaggio si adatta di
buon grado a una ricerca interdisciplinare e tiene conto degli apporti della
psicologia normale e patologica, della sociologia, dell’etnologia, della critica
letteraria. Nella grande fioritura delle indagini sulla lingua, tipica della cultura
contemporanea, affiorano almeno due concetti fondamentali quasi universalmente
condivisi. Il primo è quello della precedenza logica e psicologica del discorso come
sistema sulle parole singole (concezione strutturalistica): Wilhelm von Humboldt