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categorie. In Hegel le espressioni in sé (an sich) e per sé (für sich) servono a
qualificare modi di essere dell’Idea: lo Spirito è definito, per es., come l’Idea in sé
e per sé ossia come il momento che racchiude sia l’immediatezza grezza, che
l’esperienza che da essa muove a piena consapevolezza, cogliendo le necessità di
ogni momento e la loro sistematicità.
L’esistenzialismo, seguendo l’inclinazione linguistica che lo porta a sostantivare
molte espressioni relazionali, ha usato e usa in sé e per sé come nomi. In quella
specie di disperata rappresentazione drammatica dell’esistenza che è L’essere e il
nulla* di J.-P. Sartre l’in sé e il per sé sono i protagonisti sempre in scena: l’essere
diventa per sé in quanto nullifica l’in sé, cioè introduce nel mondo opaco
dell’esserci la separazione, il distacco, la dimensione dell’incompiutezza e della
possibilità. La coscienza, come pura possibilità, è figlia del nulla e tende alla
pienezza realizzata dell’in sé. Se l’uomo potesse portare a compimento questo
progetto, sarebbe Dio. Ma poiché l’integrazione totale della possibilità è
irrealizzabile, l’uomo, che non può non aspirare a essere Dio, resterà sempre un Dio
mancato.
INTEGRALISMO. Concezione secondo la quale tutte le attività umane dovrebbero
realizzare i principi di una determinata dottrina.
INTELLETTO. Nella filosofia greca la parola nûs, resa in latino con intellectus, viene
usata in genere per designare la facoltà di pensare, contrapposta di solito ai sensi,
che non pensano, cioè non ordinano e non scelgono. San Tommaso chiarisce il senso
del termine mediante una sua etimologia: intelletto viene da intus legere, leggere
dentro, il che vuol dire che la sua funzione è di cogliere l’essenza razionale delle
cose, mentre i sensi hanno per oggetto le qualità esteriori. Oltre che ai sensi,
l’intelletto viene anche contrapposto alla volontà: nella filosofia cartesiana, dallo
squilibrio fra il primo, organo della conoscenza, e la seconda, organo delle
emozioni, delle passioni e delle scelte, deriva la possibilità dell’errore. In Kant
compare la distinzione, destinata ad avere grande rilievo nell’idealismo romantico,
fra l’intelletto (Verstand), facoltà di pensare le intuizioni sensibili, e la ragione
(Vernunft), facoltà dell’universale e dell’incondizionato. Con Fichte e
particolarmente con Hegel, cadute le riserve kantiane sulla legittimità delle
ambizioni della ragione, l’intelletto diventa l’organo della conoscenza astratta, che
fissa le cose nella loro diversità, estraneità e immobilità, mentre il pensare autentico
si rivela nella ragione, che sola è in grado di cogliere le multiformi correlazioni
della realtà mobile e vivente. L’intelletto immobilizza l’inquietudine e la fluidità
dell’universo. All’intelletto si assegna così un compito subordinato e fortemente
limitato; esso è oggetto di una incessante polemica, condotta in nome dei diritti
superiori della ragione: gli aggettivi che di solito lo qualificano, come astratto,
rigido, impotente, hanno tutti una marcata tonalità negativa. La distinzione
terminologica e la polemica contro le pretese dell’intelletto sono passate anche
nell’idealismo italiano, e cioè nel Croce e nel Gentile. L’intelletto è l’organo del
pensiero finito, dominato dal principio di non contraddizione, che separa gli opposti
con una barriera insormontabile, mentre la ragione è il pensiero dialettico, che coglie