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totale  e  autosufficiente  razionalità.  L’unità  di  finito  e  di  infinito,  che  è  una  delle

          formule tipiche della filosofia hegeliana, designa appunto l’autogiustificazione del
          reale,  l’identità  del  reale  e  dell’ideale,  e  vale  a  togliere  alla  «  cattiva  infinità  »,
          generata dall’intelletto « astratto », la funzione di stimolo e di apertura verso l’ideale
          non  realizzato,  che  Kant  le  aveva  riconosciuto.  In  questo  senso  il  concetto  del  «
          possibile », che ha una funzione così importante nella filosofia dell’esistenza, può
          essere  considerato  come  una  reintegrazione  e  una  riabilitazione  della  «  cattiva  »

          infinità hegeliana.
          La legittimità del concetto di infinito attuale è peraltro, sul piano più propriamente
          logico-formale, una conquista del pensiero matematico moderno, soprattutto a partire
          dagli studi pubblicati da J. Dedekind e da G. Cantor nella seconda metà del XIX sec.
          La possibilità che in una classe infinita di grandezze la parte sia equivalente al tutto,
          nel  senso  che  sia  costruibile  una  corrispondenza  biunivoca  fra  ciascun  individuo
          della parte e ciascun individuo del tutto (come si verifica, per es., fra la classe dei

          numeri  primi  e  la  classe  di  tutti  i  numeri  naturali),  e  la  conseguente  necessità  di
          concepire  infiniti  «  maggiori  »  di  altri  infiniti,  sono  fra  le  implicazioni  più
          sconcertanti  del  concetto  di  infinito  attuale.  Un  esempio  convincente  della
          pensabilità  dell’infinito  attuale  è  fornito  dalle  cosiddette  «  serie  ricorrenti  ».  Si
          ponga  mente,  per  citare  l’esempio  del  filosofo  americano  J.  Royce,  a  una
          perfettissima  carta  geografica  dell’Inghilterra,  che  riproduca  tutti  i  particolari  e

          quindi  anche  se  stessa  stesa  sull’Inghilterra.  Qui  sembra  che  la  consapevolezza
          dell’inevitabilità della ripetizione includa una sorta di intuizione dell’infinito attuale.
          INGARDEN  (Roman  Witold),  filosofo  polacco  (Cracovia  1893  -  1970). Allievo  di
          Husserl, è stato professore prima all’università di Leopoli (1933) e successivamente
          a  Cracovia  (1945-1963).  Studioso  di  problemi  scientifici  oltre  che  filosofici,  ha

          svolto  in  senso  realistico  il  metodo  fenomenologico,  occupandosi  in  particolare
          delle questioni relative all’arte. Ha tentato di mettere in luce il carattere non soltanto
          soggettivo  dei  fenomeni  estetici,  indagando  la  relazione  che  intercorre  tra  opera
          d’arte e fondamento reale di questa.

          Bibliogr.: Das literarische Kunstwerk, Halle 1931; Untersuchungen zur Ontologie
          der Kunst: Musikwerk, Bild, Architektur, Film, Tubinga 1962; Times and modes of
          Being,  Springfield  1964;  su  I.:  Aa.  Vv., Phenomenology  and  science  in
          contemporary european thought, Nuova York 1962; M. Dufrenne, Phénomenologie
          de l’éxpérience esthétique, Parigi 1958.
          INNATISMO. Ogni dottrina filosofica che si fondi sull’affermazione di idee o principi

          innati nella mente umana.
          Nella storia della filosofia occidentale la formulazione più antica dell’innatismo è
          quella platonica, secondo la quale l’uomo nasce portando in sé le idee e i principi
          universali: la funzione dell’esperienza è solo quella di facilitare il recupero nella
          memoria (anamnesi) di queste cognizioni temporaneamente dimenticate. L’esigenza

          fondamentale che l’innatismo vuole soddisfare è quella di conferire, almeno a certe
          verità  e  a  certi  principi  soprattutto  morali,  la  stabilità  e  l’assolutezza,  che  non
          potrebbero essere garantite se si ammettesse la derivazione di quelli dall’esperienza.
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