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Il presupposto innatistico è stato ereditato da tutta la tradizione platonica, e ancora

          nel XVII  sec.  la  celebre  critica  di  Locke  all’innatismo  in  nome  dell’esperienza  ha
          come bersaglio principale il platonismo della scuola di Cambridge. Una forma più
          attenuata e raffinata di innatismo può essere considerata quella che non ammette il
          possesso di vere e proprie conoscenze anteriori a ogni esperienza, ma sostiene che
          l’uomo  nasce  dotato  di  tendenze  e  virtualità  mentali,  senza  le  quali  la  stessa
          esperienza non sarebbe possibile. Il primo deciso sostenitore dell’innatismo virtuale

          va considerato il Leibniz, seppure lo stesso cogito cartesiano può essere interpretato
          in  tal  senso,  anche  se  Cartesio,  con  la  posizione  delle idee  innate,  sia
          tradizionalmente  collocato  nell’ambito  dell’innatismo  di  tipo  platonico.
          L’aristotelismo  scolastico  aveva  sintetizzato  il  suo  antiplatonismo  e  antinnatismo
          nella formula: « niente è nella mente che prima non sia stato nel senso » (nihil est in
          intellectu  quod  prius non  fuerit  in  sensu).  Leibniz  aggiunge:  «  eccetto  la  mente
          stessa » (nisi ipse intellectus), volendo con ciò intendere che la mente, con la sua

          capacità  di  costruire  sintesi  e  di  porre  rapporti  e  correlazioni,  è  la  funzione
          presupposta da ogni esperienza possibile. Mentre la dottrina kantiana dell’a priori
          può per questo aspetto essere ricondotta nello spirito dell’innatismo leibniziano, una
          posizione rigorosamente antinnatistica fu quella assunta nel XVIII sec. da Condillac e
          dai sensisti suoi seguaci. La questione dell’innatismo ebbe un’ultima fase di vitalità
          nel XIX sec., quando si accesero discussioni intorno alla tesi dello Spencer secondo

          la quale l’uniformità di certi procedimenti intellettuali degli individui a un momento
          determinato dell’evoluzione deriva dal fatto che il singolo eredita quanto la specie è
          venuta  lentamente  accumulando  e  ha  di  volta  in  volta  stabilizzato  attraverso
          opportune  modificazioni  del  sistema  nervoso.  Qualcosa  può  essere  innato
          nell’individuo, nulla nella specie.
          INQUISITIVO.  Sono stati talvolta designati così quei dialoghi di  Platone (per es. il

          Sofista)  in  cui  sembra  prevalere,  almeno  a  una  lettura  immediata,  il  gusto  del
          ragionamento  sottile,  della  confutazione  e  del  paradosso  sulla  preoccupazione
          costruttiva.  (Poiché  la  forma  della  descrizione  platonica  in  questi  dialoghi
          apparentemente non è diversa da quella dell’eristica [V. ERISTICO], si spiega come
          taluni  scettici  tardi  potessero  sentirsi  seguaci  di  Platone  e  qualificarsi  come

          neoaccademici.)
          in re, loc. lat. che significa nella cosa, cioè « nella realtà ». In filosofia è usata per
          indicare  una  delle  soluzioni  date  al  problema  degli  universali*,  e  precisamente
          quella che ritiene l’universale presente nelle cose come essenza.
          IN SÉ. Insieme a per sé, indica due modi differenti dell’essere, secondo la filosofia
          esistenzialistica. (L’in sé è « l’essere che è ciò che è », cioè l’essere considerato nel

          suo puro « esserci », come realtà opaca e massiccia priva di senso, mentre il per sé
          è la coscienza, l’essere che si apre e si fa presente a se stesso.) Come indicazioni di
          modi di essere e di relazioni della sostanza le espressioni in sé, per sé derivano da
          Aristotele e sono state largamente usate dalla scolastica. Kant chiama cosa in sé la
          realtà  in  quanto  non  inclusa  nella  rappresentazione  fenomenica,  cioè  non

          condizionata  dalle  intuizioni  pure  dello  spazio  e  del  tempo  e  sussunta  dalle
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