Page 428 - Dizionario di Filosofia
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concepiti  come  altrettante  scienze  diverse  applicate  allo  studio  di  un  medesimo

          oggetto.  Infatti  le  categorie  filosofiche  e  religiose,  i  vari  modi  di  concepire  e  di
          ordinare  la  realtà,  quali  politeismo,  monoteismo  o  monismo  puro,  immanenza  e
          trascendenza, e così via, sono semplicemente vie d’approccio (marga) conducenti
          tutte a vette dove differenze od opposizioni scompaiono in una luce superiore.  Se
          alcuni  grandi  maestri,  come  Mādhavāciārya,  predicarono  la  via  della  adorazione,
          che  postula  la  dualità  tra  l’uomo  e  la  divinità,  altri,  come  Śānkarāciārya,

          propugnarono un metodo interiore che permette all’uomo di sfuggire a questa dualità
          per accedere alla verità superiore del non-dualismo (advaita). Nessun pensatore ha
          tuttavia mai negato a priori il valore intrinseco di altre vie, ed è sorprendente vedere
          che un filosofo come Śākarāciārya insegna la verità superiore dell’adorazione dopo
          che l’uomo ha fatto l’esperienza dello stato di coscienza che rivela la non-dualità.
          Sotto  un’altra  prospettiva,  si  possono  contrapporre  i  metodi  che  procedono
          soprattutto  con  una  divinizzazione  del  mondo  (visnuismo, tantrismo)  a  quelli  che

          pongono l’accento su un distacco totale dal mondo e dalle sue illusioni (vedānta,
          sivaismo, buddhismo antico).  Ma sia gli uni sia gli altri ammettono che la nostra
          visione  di  noi  stessi  e  di  ciò  che  ci  circonda  è  falsa  o  insufficiente,  e  che,  per
          elevarsi al di sopra di essa, occorre o sfuggire al grande potere d’illusione (mayā)
          oppure  riuscire  a  scorgere  dietro  alle  apparenze  il  grande  gioco  divino  (līlā)  e
          immergervisi.

          Il valore del contributo recato da un maestro (insieme filosofo e santo, perché l’India
          non  concepisce  che  queste  due  figure  possano  esistere  separatamente)  viene
          determinato da due fattori diversi: il modo come ha saputo mettere alla portata dei
          suoi contemporanei le verità primordiali, facilitandone loro l’accesso, e la sintesi
          che egli ha saputo realizzare fra tutti i precedenti sistemi, determinando il posto e la
          possibile  funzione  di  ciascuno  di  essi.  L’innovazione  dei  maestri  moderni,  come
          Aurobindo, consiste soprattutto nel tentativo di abbracciare in questa sintesi anche le

          filosofie e le scienze dell’Occidente.
          Nelle concezioni filosofiche indiane la psicologia è indissociabile dalla metafisica e
          dalla  cosmologia,  perché  è  costantemente  sostenuto  il  perfetto  parallelismo  e
          l’identità suprema che corre tra il macrocosmo e il microcosmo. La morale non è in
          funzione  sociale:  essa  è  unicamente  un  mezzo  utile  o  una  propedeutica  per  lo

          sviluppo  spirituale.  La  logica  è  insieme  più  rigorosa  e  più  flessibile  di  quella
          occidentale,  perché,  sebbene  spinga  fino  alle  estreme  conseguenze  gli  assiomi
          considerati  da  noi  come  fondamentali,  ammette,  tuttavia,  che  questi  si  applicano
          unicamente  sul  piano  della  coscienza,  in  cui  noi  siamo  avvezzi  a  vivere,  ma  che
          vengono  sostituiti  da  altri  nei  piani  superiori.  Il  fatto  di  sentirsi  costretti  in  un
          dilemma costituisce per gli Indiani la prova che ci si trova davanti a una concezione
          falsa o parziale.

          Bibliogr.: Fonti: P. Deussen, Sechzig Upanishads des Veda, 2 voll., Lipsia 1905; F.
          Belloni-Filippi, Due Upanishad, Lanciano 1912; L. Renou, Hymnes spéculatifs du
          Veda, Parigi 1957; P. Filippani-Ronconi, Upanisad antiche e medie, 3 voll., Torino
          1960-1961.  Sulla  storia:  F.  Belloni-Filippi, I  maggiori  sistemi  indiani,  Palermo
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