Page 317 - Dizionario di Filosofia
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mezzo attraverso cui la felicità poteva essere raggiunta. Per alcuni, come per gli
epicurei, la felicità consegue a una razionale é controllata fruizione del piacere; per
altri, come Socrate e Platone, la felicità si accompagna all’esercizio rigoroso della
ragione e alla finale contemplazione delle essenze ideali; per altri ancora, come gli
stoici, il saggio è felice in quanto, attraverso il dominio delle passioni, realizzava
un’aristocratica presa di coscienza della perfetta razionalità del mondo. Il pensiero
classico insisteva anche sulla coincidenza di virtù e di felicità. Solo chi è virtuoso è
veramente felice: il motivo è presente in Socrate e in Platone ed è tipico di
Aristotele e dello stoicismo. Il pessimismo cristiano distingue tra felicità, come
peccaminosa e illusoria assolutizzazione delle aspirazioni anche legittime dell’uomo
nel mondo, e beatitudine, che è. al contrario una condizione di pienezza raggiungibile
solo nella vita oltremondana.
Si può dire che in Kant anche il tema filosofico della felicità abbia subito una
riformulazione importante. Kant chiama Sommo Bene l’unione di virtù e di felicità.
Ma, poiché nella vita temporale una tale sintesi non è realizzabile, l’insopprimibile
esigenza del Sommo Bene vale appunto come prova della necessaria prosecuzione
della vita dell’anima oltre la morte. La felicità, intesa come piena soddisfazione di
tutti i bisogni e di tutte le aspirazioni dell’essere razionale, non è conseguibile nel
corso dell’esistenza mondana. La nozione di felicità diventa così per Kant e per la
filosofia di derivazione kantiana una specie di concettolimite, uno dei tanti modi
indiretti per indicare la finitudine dell’uomo e l’impossibilità di attingere nell’ordine
temporale la totalità. Il Romanticismo e il decadentismo esasperarono poi il concetto
correlativo dell’infelicità, dell’inquietudine, dell’insoddisfazione, come connaturali
alla condizione dell’uomo. Della felicità intesa come riflesso dell’attiva pienezza
vitale, come risultato delle capacità creative dell’uomo che si estrinsecano
liberamente in forme congeniali, si possono trovare peraltro frequenti accenni nella
tradizione idealistico-romantica.
Il pensiero anglosassone, da Hume in poi, ha seguito una sua linea caratteristica di «
socializzazione » del concetto di felicità. Emergono in questa tradizione di pensiero
due esigenze caratteristiche: da un lato, quella di intendere la felicità in senso
relativo alle concrete situazioni dell’esistenza, in modo che essa appaia come un
obiettivo ragionevolmente perseguibile; dall’altro, quella di assumere sempre come
condizione della relativa felicità del singolo il contributo alla realizzazione della
relativa felicità degli altri. Nonostante l’influsso esercitato su pensatori del XVIII sec.
anche fuori dall’Inghilterra (e in Italia basta ricordare il Muratori e Pietro Verri),
questa empiricizzazione del concetto di felicità non trovò grande rispondenza nel
pensiero continentale, più sensibile a una sua tradizione di realismo pessimistico.
Del resto la filosofia moderna è tornata raramente e solo di scorcio a riesaminare il
concetto di felicità. E tuttavia l’analisi strenua e tanto insistita dell’infelicità
dell’uomo contemporaneo, fino al punto che parole come frustrazione, alienazione,
incomunicabilità ricorrono ormai anche nel linguaggio quotidiano, sembrerebbe
implicare la presenza stabile di un concetto adeguato della felicità, sia al livello
dotto, sia a quello del senso comune.