Page 287 - Dizionario di Filosofia
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secondo Diogene Laerzio, 341 -† 270 a.C.). Trascorse l’infanzia a Samo, dove suo

          padre era maestro di scuola e sua madre esercitava la magia. Si ritiene che lì sia
          stato  discepolo  del  platonico  Panfilo  e  poi,  nel  323,  ad  Atene,  dell’accademico
          Senocrate. A sua volta esercitò il mestiere di maestro di scuola. Lesse e studiò molto
          pervenendo all’elaborazione di un sistema filosofico che insegnò dal 310 a Mitilene,
          a Lampsaco e poi ad Atene, dove visse il periodo più lungo della sua esistenza. Ivi
          nel 306 aprì la sua scuola, in un giardino che aveva acquistato e in cui viveva in

          comunità con i suoi amici. Della sua opera di vasta mole rimangono a noi solo tre
          lettere (a Erodoto, a Meneceo, a Pitocle) conservate da Diogene Laerzio e contenenti
          il  sunto  della  sua  dottrina,  una  raccolta  di Massime capitali  (Kýriai  dóxai),  che
          sembrano essere state riunite da un suo discepolo, e numerosi frammenti.
          La sua filosofia, che ha fornito a Lucrezio la materia del poema De rerum natura*,
          deriva  fondamentalmente  dal  pensiero  di  Democrito.  Come  lui  infatti  Epicuro
          considera tutta quanta la realtà come materia costituita da atomi in movimento, che,

          combinandosi tra loro, formano le molteplici cose del mondo. Ma mentre l’atomismo
          di Democrito era guidato da un rigoroso determinismo meccanico, quello di Epicuro
          ammette la possibilità del caso, grazie alla parénklisis (che Lucrezio tradusse in lat.
          con clinamen),  cioè  a  una  spontanea  «  deviazione  »  degli  atomi,  che  offre  la
          possibilità  di  ammettere  nel  mondo  una  certa  libertà.  Il  suo  materialismo,  come
          quello di Democrito, si fonda sulla convinzione che la realtà sia solo materia e che

          non abbisogni di alcun intervento divino. L’anima stessa, costituita di atomi sottili, è
          materiale  e  mortale:  Epicuro  ne  esclude  l’immortalità  osservando  che,  se  l’anima
          fosse  incorporea,  non  potrebbe  essere  né  attiva  né  passiva,  ciò  che  contrasta  con
          l’esperienza;  infine  l’anima,  pur  essendo  dotata  di  ragione  e  di  libertà,  non  può
          superare l’ambito empirico.
          Alla  filosofia  Epicuro  riconosce  non  già  il  carattere  fondante  rispetto  alle  altre
          scienze,  come  Aristotele,  ma  una  funzione  essenziale  rispetto  alla  vita:  come  un

          farmaco (tetraphàrmakos,  perché  sana  da  quattro  malattie)  essa  libera  dal  timore
          degli dei, dalla morte, dal dolore e rende accessibile un moderato piacere. La logica
          epicurea (o canonica) riconosce tre mezzi per arrivare non tanto alla verità, quanto
          alla saggezza: le sensazioni (aisthēseis), l’anticipazione (prólēpsis) e i sentimenti
          (páthē);  fondamentale è  la  sensibilità,  con  cui  si  può  arrivare  all’evidenza

          (enárgeia);  gli éidōla o immagini (materiali) si staccano dalle cose e sono causa
          delie sensazioni.
          La morale epicurea ha come fine la felicità dell’uomo, realizzabile mediante un uso
          equilibrato e ragionevole dei piaceri, tra i quali Epicuro raccomanda quelli naturali
          e necessari (come cibarsi), ammette quelli naturali ma non necessari (come cibarsi
          di alimenti raffinati) e sconsiglia quelli che non sono né naturali né necessari (come
          arricchirsi). Da questo punto di vista il suo non è quindi un vero e proprio edonismo;
          infatti la felicità che tale morale vuol procurare all’uomo è fatta di tranquillità, di

          pace, di atarassia, in pieno accordo con la natura, e di liberazione nei confronti del
          dolore (aponia) e dei pregiudizi. Questa sorta di « calcolo dei piaceri » implica una
          relativa  austerità  e  una  forma  di  saggezza  tranquilla  e  distaccata.  La  scuola  di
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