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secondo Diogene Laerzio, 341 -† 270 a.C.). Trascorse l’infanzia a Samo, dove suo
padre era maestro di scuola e sua madre esercitava la magia. Si ritiene che lì sia
stato discepolo del platonico Panfilo e poi, nel 323, ad Atene, dell’accademico
Senocrate. A sua volta esercitò il mestiere di maestro di scuola. Lesse e studiò molto
pervenendo all’elaborazione di un sistema filosofico che insegnò dal 310 a Mitilene,
a Lampsaco e poi ad Atene, dove visse il periodo più lungo della sua esistenza. Ivi
nel 306 aprì la sua scuola, in un giardino che aveva acquistato e in cui viveva in
comunità con i suoi amici. Della sua opera di vasta mole rimangono a noi solo tre
lettere (a Erodoto, a Meneceo, a Pitocle) conservate da Diogene Laerzio e contenenti
il sunto della sua dottrina, una raccolta di Massime capitali (Kýriai dóxai), che
sembrano essere state riunite da un suo discepolo, e numerosi frammenti.
La sua filosofia, che ha fornito a Lucrezio la materia del poema De rerum natura*,
deriva fondamentalmente dal pensiero di Democrito. Come lui infatti Epicuro
considera tutta quanta la realtà come materia costituita da atomi in movimento, che,
combinandosi tra loro, formano le molteplici cose del mondo. Ma mentre l’atomismo
di Democrito era guidato da un rigoroso determinismo meccanico, quello di Epicuro
ammette la possibilità del caso, grazie alla parénklisis (che Lucrezio tradusse in lat.
con clinamen), cioè a una spontanea « deviazione » degli atomi, che offre la
possibilità di ammettere nel mondo una certa libertà. Il suo materialismo, come
quello di Democrito, si fonda sulla convinzione che la realtà sia solo materia e che
non abbisogni di alcun intervento divino. L’anima stessa, costituita di atomi sottili, è
materiale e mortale: Epicuro ne esclude l’immortalità osservando che, se l’anima
fosse incorporea, non potrebbe essere né attiva né passiva, ciò che contrasta con
l’esperienza; infine l’anima, pur essendo dotata di ragione e di libertà, non può
superare l’ambito empirico.
Alla filosofia Epicuro riconosce non già il carattere fondante rispetto alle altre
scienze, come Aristotele, ma una funzione essenziale rispetto alla vita: come un
farmaco (tetraphàrmakos, perché sana da quattro malattie) essa libera dal timore
degli dei, dalla morte, dal dolore e rende accessibile un moderato piacere. La logica
epicurea (o canonica) riconosce tre mezzi per arrivare non tanto alla verità, quanto
alla saggezza: le sensazioni (aisthēseis), l’anticipazione (prólēpsis) e i sentimenti
(páthē); fondamentale è la sensibilità, con cui si può arrivare all’evidenza
(enárgeia); gli éidōla o immagini (materiali) si staccano dalle cose e sono causa
delie sensazioni.
La morale epicurea ha come fine la felicità dell’uomo, realizzabile mediante un uso
equilibrato e ragionevole dei piaceri, tra i quali Epicuro raccomanda quelli naturali
e necessari (come cibarsi), ammette quelli naturali ma non necessari (come cibarsi
di alimenti raffinati) e sconsiglia quelli che non sono né naturali né necessari (come
arricchirsi). Da questo punto di vista il suo non è quindi un vero e proprio edonismo;
infatti la felicità che tale morale vuol procurare all’uomo è fatta di tranquillità, di
pace, di atarassia, in pieno accordo con la natura, e di liberazione nei confronti del
dolore (aponia) e dei pregiudizi. Questa sorta di « calcolo dei piaceri » implica una
relativa austerità e una forma di saggezza tranquilla e distaccata. La scuola di