Page 28 - Dizionario di Filosofia
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Roy, muoveva da una concezione bergsoniana della realtà e s’affidava all’intuizione
per coglierne l’evoluzione creatrice oltre e contro le convenzioni scientifiche
suggerite dai bisogni pratici. Non c’è un solo pragmatismo, ce ne sono almeno due e
inconciliabili tra loro, sostenevano i nostri Vailati e Calderoni contro le tendenze
irrazionalistiche del « Leonardo » fiorentino. Uno piegava a una valutazione
utilitaristica delle credenze o ne sosteneva le più eccezionali, come accadeva a
Papini dopo la « sua » lettura di James; mentre l’altro seguiva la regola del Peirce,
che, lungi dall’essere diretta a rendere più « arbitraria » e « soggettiva » la
distinzione fra opinioni vere e false, aveva di mira lo scopo opposto. Per tale regola
« la questione di determinare che cosa vogliamo dire quando enunciamo una data
proposizione » non solo era diversa da quella di decidere se questa sia vera o falsa;
essa era una questione che, in un modo o in un altro, occorreva decidere prima di
iniziare la trattazione dell’altra. Dopo di che, ne arguiva Vailati, l’unico senso in cui
il pragmatismo potrebbe dirsi « utilitario » è che esso aiuta a scartare molti problemi
apparenti (Le origini e l’idea fondamentale del pragmatismo in Scritti, Firenze-
Lipsia 1911, pp. 921-23).
A questo punto, la considerazione del pragmatismo si apre a un’alternativa. O
se ne tenta una definizione, in vista di un uso teorico sufficientemente rigoroso, o si
torna al suo contesto storico per cercarvi un’identità culturale. Nonostante le
differenze, ribadite recentemente da Ayer, è infatti possibile riconoscere almeno un
pragmatismo americano. Basterà riportarci alla genteel tradition del New England
ormai prossima alla fine e tornare a leggersi, tra le altre, le pagine di Santayana: la
nazione era diventata numerosa e più sicura, aveva persa o attenuata l’angoscia del
peccato, così incombente ai tempi di Jonathan Edwards, e l’aveva sostituita con uno
spirito d’intrapresa. Restava dell’eredità puritana il forte sentimento della natura che
con Emerson e Walt Whitman diventava feconda invece che ostile, un luogo dove
l’uomo si metteva in contatto con Dio e ne veniva gratificato. Sulla scorta dei
romantici e dei trascendentalisti europei, erano affluite le nuove idee della storia e
dell’evoluzione, ed Hegel, Spencer e Darwin, superata la resistenza dei teologi più
ostinati, avevano cominciato ad occupare i colleges e a scalzarvi la supremazia
dell’empirismo e del senso comune. Non è dunque un caso che, a cercare una data e
un luogo di nascita del pragmatismo, li si trovi nel Metaphysical Club che agli inizi
degli anni Settanta si riuniva a volte nello studio di Peirce e a volte nella casa di
James, « metafisico » perché voleva reagire all’agnosticismo allora in voga e
frequentato dal giudice Holmes, da Nicholas St. John Green, John Fiske e Francis
Ellingwood Abbot. Con essi figurava una « celebrità filosofica », quel Chauncey
Wright che aveva contribuito più di ogni altro a diffondere in America le dottrine
darwiniane; e non c’è dubbio che queste, con le dispute sui significati da
corrispondere all’evoluzione nel dominio della scienza e della morale, fossero
decisive nella formazione di un atteggiamento pragmatistico. L’Origine della specie
imponeva una rottura con gli schemi del pensiero tradizionale, respingeva il primato
che esso aveva attribuito a ciò che è permanente e finale. Che ne conseguisse un
diverso concetto e un nuovo compito dell’intelligenza, lo segnalava Dewey in una