Page 24 - Dizionario di Filosofia
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Capitale. Al cui centro teorico è la complessa dottrina del plusvalore basata sulla
scoperta della nozione di forza-lavoro (in parte sostitutiva di quella semplice di «
lavoro » a cui si limitavano gli economisti classici) come di un valore d’uso che ha
la proprietà peculiare di essere fonte di valore: la cui compravendita, a guisa di
merce, sta a fondamento della circolazione capitalistica e quindi di tutto il sistema.
(Ciò darà luogo al più dibattuto e contestato problema post-marxiano, quello detto
della trasformazione dei valori in prezzi.) Ma la contraddizione centrale del sistema
capitalistico, secondo l’analisi di Marx, non è tanto quella statica e permanente fra
capitale e lavoro, quanto quella dinamica fra la tendenza che gli è propria verso uno
sviluppo assoluto delle forze produttive, e le condizioni limitanti tale sviluppo, che
nascono dalle leggi del profitto capitalistico (a cui si riallaccia la teoria delle crisi).
Qui la critica dell’economia politica si immette nella più generale concezione del
materialismo storico, cioè nella concezione della dialettica fra forze produttive e
rapporti sociali entro cui esse si sviluppano o decadono (rapporti di produzione e,
giuridicamente, di proprietà); ma con cui il loro accrescimento può metterle in
contraddizione, dando luogo alle grandi crisi rivoluzionarie e, in generale, al
passaggio storico da una formazione sociale ad un’altra (per es. schiavistica,
feudale, capitalistica ecc.). La regola fondamentale che Marx intende aver
identificato (Prefazione al Per la critica dell’economia politica, 1859) è che « una
formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive
cui può dare corso », la quale suona insieme come indicazione e avvertimento per
l’azione rivoluzionaria.
La « società nuova », comunista, presuppone, secondo il pensiero di Marx, la
presa del potere da parte del proletariato e dei suoi alleati sociali e politici, lo
spezzamento della macchina statale borghese, un breve periodo di repressione
organizzata della maggioranza del popolo sulle minoranze costituite dalle vecchie
classi sfruttatrici (« dittatura del proletariato »: formula in cui la parola dittatura va
intesa nel suo senso ottocentesco – non antidemocratico bensì democratico e di
transitorietà – trasferito dall’individuo alla classe), per avviare l’estinzione dello
Stato politico, cioè dello Stato separato dalla società, onde sostituire al governo
sugli uomini il loro autogoverno associato, come « amministrazione delle cose »
(secondo un concetto che si origina dal socialismo utopistico premarxiano). Questa «
nuova società » non si costituisce comunque di un colpo, nella previsione di Marx –
che è una previsione, come bene interpretò il Labriola, di carattere morfologico – ma
dovrà necessariamente attraversare una fase intermedia (da qualcuno chiamata
socialistica, in contrapposizione a comunistica), nella quale alla socializzazione dei
grandi mezzi di produzione e di scambio corrisponderà ancora la permanenza del
diritto borghese (e la cui interna règie de justice sarà perciò: « a ciascuno secondo il
suo lavoro »), finché la crescita della ricchezza sociale e delle forze produttive, e la
maturazione delle coscienze, renderanno possibile lo stadio compiuto del comunismo
(regolato dal principio: « a ciascuno secondo i suoi bisogni »). Di questo stadio
ultimo, che nella concezione di Marx non è la fine della storia, ma piuttosto l’uscita
dell’umanità dalla sua « preistoria » (di formazioni sociali basate sullo sfruttamento