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poco destinato ad essere iniziatore del « revisionismo »), lo « ortodosso » Kautsky,
il russo Plechanov. Ai quali dobbiamo aggiungere il nome del Labriola (che fu amico
di Engels e con lui corrispose).
Ma se ci siamo soffermati, sia pur sommariamente, sulle origini della parola «
marxismo » è anche per rilevare un certo paradosso contenuto in essa, perché nulla
fu più lontano dalla mentalità dei due fondatori della dottrina che una sua
personalizzazione. I termini impersonali (ma anche parziali) che essi adoperarono o
comunque accettarono (ma assai più lo Engels che il Marx) furono quelli di «
comunismo critico » o « socialismo scientifico » (scientifico contrapposto a
utopistico) o « materialismo storico » o « concezione materialistica della storia ».
Questa non-personalizzazione della teoria corrispondeva a un atteggiamento teorico
fondamentale che Marx ed Engels avevano esplicitato fin dal loro Manifesto del
Partito Comunista (pubblicato nel febbraio 1848). « Gli enunciati teorici dei
comunisti – essi scrivevano – non poggiano sopra idee o princìpi, che questo o
quello fra i rinnovatori del mondo abbiano escogitati o scoperti. Quegli enunciati
sono soltanto l’espressione generalizzata delle condizioni di fatto di una lotta di
classi che realmente esiste, ossia di un movimento storico che si svolge sotto i nostri
occhi ». È la lotta di classe fra « proletari » (intesi come gli « operai moderni »,
nuovo gruppo sociale generato dalla grande industria e dal macchinismo) e «
capitalisti » (gli agenti appunto del nuovo « modo di produzione »), che coinvolge
ogni strato precedentemente esistente della società nei paesi “civili” ed
economicamente sviluppati. Il famoso appello con cui il Manifesto si chiude: «
Proletari di tutti i paesi, unitevi », non è un puro appello volontaristico, ma è l’invito
a prendere coscienza in forma politicamente organizzata di quelle « condizioni di
fatto », esposte nel Manifesto. E ciò non per uno scopo puramente difensivo rispetto
alle condizioni del lavoro industriale (l’operaio « divenuto semplice accessorio
della macchina ») e dell’intensificato sfruttamento del lavoro stesso, ma perché il
proletariato industriale, procurandosi le necessarie alleanze sociali e politiche (di
natura « democratica »), e innalzandosi sopra i propri particolarismi concorrenziali,
corporativi e nazionali (questo significa per Marx ed Engels « formarsi » o «
organizzarsi » in classe e quindi in « partito politico ») diventi intemazionalmente
l’agente o il soggetto rivoluzionario di una « nuova società », quella comunistica,
nella forma in cui questa può emergere dal seno e dalle contraddizioni della società
precedente. E cioè nelle condizioni storiche reali che sono quelle stesse create dal
sistema capitalistico: 1) un immane sviluppo delle « forze produttive » dell’uomo
che coinvolge la scienza, la tecnica e investe ormai tutto l’orbe terraqueo (… « quale
dei secoli antecedenti – ci si chiede nel Manifesto – avrebbe mai presentito che tali
forze produttive giacessero latenti in seno al lavoro sociale? »). 2) le contraddizioni
che sono intrinseche alla dinamica stessa del modo di produzione capitalistico e che
lo trascinano a crisi periodiche e a ricorrenti distruzioni di ricchezza sociale e di «
forze produttive ». L’analisi di tali contraddizioni – cioè del modo capitalistico di
produzione e di scambio – fu l’opera più specifica di Marx: quella « critica
dell’economia politica » che ebbe il suo punto più sistematico di maturazione nel