Page 27 - Dizionario di Filosofia
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IL PRAGMATISMO

                Chi  s’avvicina  al  pragmatismo  americano  ed  europeo,  s’imbatte  in  un  fatto
          curioso. Nessuno dei filosofi indicati dagli studiosi come pragmatisti pare disposto a
          dirsi tale. Lo stesso William James si sarebbe affrettato a spegnere i clamori contrari
          al  suo Pragmatism del 1907, a respingere le obiezioni dei critici, ammettendo che
          troppe cose si erano mescolate alla dottrina della verità. Accusato di rovesciarne il
          concetto tradizionale, consistente nella corrispondenza o adeguazione dell’intelletto
          e della cosa, e di trasferire l’intero problema sul terreno della volontà di credere,

          egli ripeteva all’amico Ralph Barton Perry di avere inteso solo questo, che « a parità
          di  condizioni,  la  considerazione  moralmente  più  soddisfacente  sarà  tenuta  dagli
          uomini più vera di quella che lo è meno » e che dunque restava fermo ogni altro test
          riferito alla percezione e alla coerenza logica (Perry, The Character and Thought of
          William James, Boston 1936, II, p. 648). Se poi passiamo a Charles Sanders Peirce,
          troviamo  che  egli  aveva  già  preso  le  distanze  con  un  articolo  sul  «  Monist  »  nel

          1905.  Qui  egli  spiegava  di  essersi  servito  del  termine  per  designare  la  dottrina
          secondo  cui  «  un  concetto,  ossia  il  significato  di  una  parola  o  altra  espressione,
          consiste esclusivamente nelle sue conseguenze concepibili sulla condotta della vita »
          e aggiungeva che, poiché niente di ciò che non risulta dall’esperienza può avere un
          riflesso diretto sulla stessa, se uno riesce a determinare tutti i fenomeni sperimentali
          prodotti  dall’affermazione  o  dalla  negazione  di  un  concetto  ne  otterrà  anche  una
          definizione completa. La formula è laboriosa, ma rende bene l’intenzione di indicare

          una procedura in grado di stabilire il significato delle proposizioni e di fissare le
          credenze o abiti di azione. Per questo, temendo le manipolazioni dei letterati, Peirce
          decideva di abbandonare al suo destino quel bambino (il « pragmatismo ») cresciuto
          troppo  in  fretta  e  di  sostituirlo  con  la  parola pragmaticism, abbastanza brutta per
          dissuadere i rapitori di fanciulli (What Pragmatism is in Collected Papers, a cura di
          Ch. Hartshorne e P. Weiss, Cambridge Mass. 1931–35, 5.414). Non meno perplesso,

          nella sua recensione al libro di James, si mostrava infine John Dewey. Le idee sono
          sempre  ipotesi  di  lavoro  che  riguardano  fini  empiricamente  determinati  e  la
          cosiddetta bontà degli effetti non va accolta in altro modo, dovendosi escludere che
          il buon risultato derivato dall’accettare una certa idea sia una prova della sua verità.
          Perciò  era  da  preferire  il  termine  «  strumentalismo  »,  la  cui  essenza  consiste
          nell’assumere la conoscenza e l’attività pratica come dei mezzi per rendere sicuri
          certi  valori  nell’esistenza;  ma  a  questa  formula  se  ne  potevano  aggiungere  altre,

          come  quella  di  «  naturalismo  culturale  »,  posto  che  nessuna  indagine  e  nessun
          sistema,  neppure  il  più  formale,  opera  fuori  di  un  determinato  contesto  sociale  e
          altrimenti che per una sua trasformazione positiva (Logic:  The  Theory of  Inquiry,
          New York 1938, p. 20).
                Ugualmente  significative,  anche  se  di  segno  opposto,  le  riserve  dei  filosofi
          europei  agli  inizi  del  secolo.  Così  lo  Schiller,  citato  nell’articolo  peirciano,  era

          indotto a chiamare « umanismo » la propria dottrina per dare un maggiore rilievo
          all’individuo e alla lezione di Protagora che lo aveva elevato a misura delle cose.
          Ma  l’etichetta  non  appare  meno  ambigua  se  la  riferiamo  a  chi,  come  Edouard  Le
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