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Le principali virtù confuciane, mediante le quali si raggiunge la perfezione, sono lo
jen, ovvero la compassione o la simpatia che ci porta a soccorrere i nostri simili, e
lo yi, l’equità, che fa rispettare i beni altrui e tiene conto dei doveri propri allo stato
sociale di ciascuno. La saggezza, secondo Confucio, si acquisisce mediante lo
studio, la riflessione, lo sforzo. L’ideale confuciano è rappresentato dall’uomo
superiore, il chün-tzû, che deve migliorarsi spiritualmente in maniera autonoma a
contatto con i suoi amici e i suoi maestri; se egli è principe, deve « governare
mediante i riti e la musica ». I riti non sono solamente manifestazioni formali, ma
anche modi di agire grazie ai quali si ottempera ai propri rapporti con gli altri esseri
umani. In una società a struttura feudale, infatti, qualsiasi relazione tra due diversi
esseri umani deve, per evitare lo sgretolamento dell’ordine sociale, essere regolata
in modo molto preciso, al fine di rispettare severamente la struttura gerarchica della
società stessa. I riti hanno un valore generale che permette di farne un principio di
governo, poiché pongono in armonia il comportamento umano col ritmo universale.
Al contrario di quanto avviene per i Barbari, presso i civilissimi Cinesi i sentimenti
e le passioni sono disciplinati, arginati dalle regole convenzionali descritte nei
rituali: i riti appaiono così come un « principio di costrizione ». Essi sono
completati dalla musica, che è un principio di armonia; ogni cerimonia comprende
una parte di musica, che deve suscitare la bontà e la mutua affezione.
• Il confucianesimo dei secoli successivi. Dopo la morte del maestro, una parte dei
discepoli restò a Lu e vi mantenne la sua scuola; altri fondarono nuove scuole in altri
principati. Alcune di queste subirono l’influsso di scuole filosofiche estranee; altre
s i lasciarono trascinare verso un ritualismo puramente formale allontanandosi
dall’umanesimo del maestro. L’insegnamento dei successori di Confucio andò
sempre più limitandosi al commento dei classici e il sapere libresco li distanziò
sempre più dalle forme pragmatiche dell’insegnamento confuciano. I due filosofi che
più degli altri caratterizzarono il confucianesimo dopo la morte del maestro furono
Meng-tzû e Hsün-tzû (371-289); il nome del primo fu latinizzato in Mencius
(Mencio*). Con questi si aprì nel pensiero cinese la millenaria polemica sulla natura
umana: Mencio, decisamente ottimista, la dichiarò buona. Con lui soprattutto si
precisò e si esaltò la figura del letterato e uomo di cultura.
A Hsün-tzû, il confucianesimo deve i solidi fondamenti filosofici che gli permisero
ben presto di imporsi come dottrina ufficiale di Stato. Hsün-tzû nacque all’inizio del
III sec. e morì, forse, sotto Ch’in Huangti. Rifiutando il ricorso alle leggi penali,
cercò altre regole oggettive e le trovò nel vecchio ritualismo: la sua originalità
consiste nell’aver fondato quest’ultimo sulla ragione, e non più sulle credenze
religiose. Contrariamente a Mencio, affermò che la natura umana è malvagia e che
solo grazie all’educazione e alla cultura l’uomo acquisisce una seconda natura e
diviene socievole e buono. Come tutti i confuciani, sostenne che la civiltà era stata
creata dagli antichi sovrani della Cina. La sua descrizione del Figlio del Cielo è
identica alla rappresentazione tradizionale del Figlio del Cielo leggendario; ma
ormai si tratta solamente di un’immagine che simboleggia l’efficacia razionale di
un’amministrazione perfettamente organizzata; non è più la rappresentazione mitica