Page 116 - Dizionario di Filosofia
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»,  1897-1898;  O.  Ewald, R.  Avenarius  als  Begründer  des  Empiriokriticismus,

          Berlino  1905;  J.  Suter, Die  Philosophie von  R.  Avenarius,  Zurigo 1910;  F.  Raab,
          Die  Philosophie  von  R.  Avenarius,  Lipsia  1912;  A.  Hirche, Das  Ich  des
          Empiriokriticismus (R. Avenarius), Lipsia 1913.
          AVERROÈ  (Abū  al-Walīd  Muhammad  ibn Ahmad  ibn  Muhammad  Ibn  Rushd,  noto

          nell’Occidente latino sotto il nome di), filosofo, medico e giurista arabo di Spagna
          (Cordova 1126 - Marrakech 1198). Chiamato a Marrakech da Al-Mansūr, riformò
          l’amministrazione della giustizia.
          Ritornato a Cordova, vi insegnò filosofia, ma nel 1195 fu accusato di eterodossia e
          costretto a fuggire; si nascose per qualche tempo a Fez, ma fu imprigionato. Venne
          relegato a Lucena presso Cordova; nel 1198 fu richiamato a Marrakech e ripristinato
          nella sua antica carica di cadì, ma morì qualche mese dopo.

          Averroè è celebre soprattutto per i suoi Commentari ad Aristotele (v. ARISTOTELE
          [Commentari  su]),  onde  fu  chiamato  nel  medioevo il  Commentatore  per
          antonomasia,  e  come  tale  è  ricordato  anche  da  Dante  (Inf.,  IV,  144).  Averroè  si
          propone  di  ristabilire  l’autentico  pensiero  di  Aristotele,  liberandolo  da  quelle
          interpretazioni  di  carattere  neoplatonico  che  gli  erano  state  date  precedentemente,
          soprattutto per motivi religiosi; ma in realtà compie un’opera molto più originale di

          quanto  egli  stesso  non  creda.  In  polemica con  il  fideismo  di  Al-Ghazālī,  che
          nell’opera La  distruzione  dei  filosofi  aveva  attribuito  a  Dio  un  assoluto  arbitrio
          nelle cose del mondo, Averroè (la cui principale opera originale è appunto intitolata
          La  distruzione  della  distruzione)  insiste  sull’ordine  necessario  e  razionale  del
          mondo e concepisce Dio come il principio che garantisce tale ordine. Proprio perché
          Dio, concepito aristotelicamente come atto puro, è eterno principio di movimento,
          anche il mondo è eterno; ed eterna è la materia, intesa come pura indeterminazione

          che contiene in germe tutte le forme. Tutto ciò che è in potenza passa all’atto; nulla
          rimane inerte; la serie delle generazioni è necessaria e infinita a parte ante e a parte
          post.  Se  la  validità  della  scienza  si  fonda  sull’ordine  razionale  e  necessario  del
          mondo,  d’altro  canto  la  sua  stabilità  e  continuità  viene  garantita  dall’unicità
          dell’intelletto: infatti Averroè, commentando il De anima di Aristotele, afferma che
          non solo l’intelletto agente è una sostanza separata identica per tutti gli uomini, ma

          anche  l’intelletto  in  potenza,  che  egli  chiama intelletto  materiale  (in  quanto  la
          materia  si  identifica  con  la  potenzialità),  è  unico,  ingenerabile  e  incorruttibile  e,
          mediante  un’azione  sulle  immagini  sensibili  di  ciascun  uomo,  si  congiunge
          accidentalmente al singolo nell’atto dell’intendere senza che queste unioni molteplici
          alterino la sua unicità; esso è perciò l’intelligenza della specie umana, è immortale
          ed  eterno,  mentre  i  singoli  individui  e  le  anime  individuali  sono  mortali.  Per
          superare il contrasto di alcune sue dottrine con i princìpi della religione islamica,

          Averroè afferma che la religione presenta la verità filosofica attraverso simboli, e
          che quindi si deve distinguere l’interpretazione letterale del Corano, buona per gli
          illetterati,  dall’interpretazione  allegorica,  in  cui  vengono  adombrate  le  verità
          filosofiche: tale dottrina verrà intesa come teoria della doppia verità*, ma in realtà
          Averroè tende ad affermare l’autonomia della ricerca filosofica nei confronti della
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