Page 87 - I templari e il filo segreto di Hiram
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                accorgersene;  soprattutto  nell‟età  adolescenziale  quando  i
                “bivi” sono determinanti poiché vi si gioca il futuro della vita,
                quasi sempre in maniera inconsapevole.”
                    In tal modo, al servizio del conte Borrel, Gerberto frequentò
                dapprima lo scriptorium del monastero di Ripoll e poi le scuole
                di Barcellona e Saragozza che all’epoca erano considerate tra le
                migliori al mondo, e poco importava se Saragozza in quegli anni
                fosse  nelle  mani  dei  Mori  d’Andalusia.  Sussisteva  un
                interscambio  culturale  e  commerciale  che  la  Spagna  avrebbe
                ignorato  per  tutto  il  millennio  successivo.  A  quei  tempi
                Saragozza era mitica quanto Baghdad: il faro della cultura araba
                ad Occidente!
                   In  quella  città,  dove  arabi,  romani,  visigoti  ed  ebrei  si
                mischiavano,  Gerberto  incappò  in  ciò  che  cercava:  un  fervore
                intellettuale  ignoto  altrove.  In  quegli  anni  a  Saragozza  si
                coltivavano  arti  dimenticate  tanto  in  Francia  quanto  nella  città
                del Sacro Romano Impero, e una grande importanza era attribuita
                all’aritmetica,  all’astronomia  e  alla  geometria.  Vi  si  usava
                l’abaco e si giocava a scacchi nelle piazze trasformate in festosi
                teatri.  Erano  inoltre  in  voga,  in  quelle  piazze,  vivaci  gare
                mnemoniche sconosciute nelle valli solitarie dei Pirinei o nella
                Francia disseminata di tristi e cupi monasteri: gare che Gerberto
                vinceva con facilità e che lo introdussero nelle case di Tolomeo e
                Alandreo,  maestri  nella  scienza  delle  stelle,  di  Giulio  Firmico,
                insigne matematico e di un poeta di nome Gaspar.
                   Alandreo  possedeva  un  libro  prezioso,  scritto  da  Ipazia,
                insigne  matematica  e  astronoma,  sventrata  in  una  chiesa  di
                Alessandria seicento anni prima da fanatici cristiani, al soldo del
                vescovo Cirillo, poiché sospettata di paganesimo, e poi bruciata.
                In quel libro non erano soltanto descritti i moti degli astri, ma la
                terra era raffigurata come una sfera secondo i calcoli precisi di
                Eratostene  di  Cirene,  desunti  dalle  ombre  degli  obelischi  di
                uguale  altezza  a  Tebe  e  ad  Alessandria,  a  mezzogiorno  del
                solstizio  d’estate.  Un  calcolo  elementare  che  nessuno,  prima  e
                dopo di lui, osò fare. Presso la prima cataratta del Nilo, situata
                sul  Tropico  del  Cancro,  in  quel  giorno  del  solstizio  d’estate
                l’obelisco  non  faceva  ombra,  mentre  ad  Alessandria  un’ombra
                c’era, seppur minima: ecco dimostrata della sfericità della terra,
                peraltro  già  confermata  dall’ombra  della  terra  proiettata  sulla
                luna  durante  le  esclissi  lunari.  Poi,  misurando  la  lunghezza  di
                quell’esile  ombra  di  mezzogiorno  ai  piedi  dell’obelisco  di


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