Page 229 - Storia della Russia
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Verso il «socialismo sviluppato»: 1953-1985
La nuova dirigenza e la destalinizzazione
Il cadavere di Stalin fu imbalsamato e posto accanto a quello di Lenin nel mausoleo sulla
Piazza Rossa. La morte del dittatore provocò reazioni contrastanti. Paura e incertezza si
diffusero nel paese. Cosa sarebbe accaduto ora? Come nel 1924, i capi rimasti si
scontrarono sulla successione e sull’indirizzo politico da adottare. Uno dei problemi
costanti dell’Unione Sovietica era proprio la mancanza di un meccanismo condiviso ed
efficace cui affidarsi nel ricambio e nell’avvicendamento dei vertici del potere. La prima
urgenza per gli eredi di Stalin – appena scampati a una nuova minaccia di purghe – fu di
garantire la propria autorità e sicurezza e impedire il predominio di una sola persona: il più
pericoloso dittatore potenziale era il capo della polizia segreta, l’intelligente e sadico
Berija. Il 26 giugno Berija, arrestato durante una sessione del Presidium, fu processato in
fretta (come «spia britannica»!) e fucilato; ad alti ufficiali della polizia toccò la stessa
sorte. La polizia segreta, ribattezzata KGB, fu oggetto di un notevole ridimensionamento e
finì sotto un più stretto controllo da parte del Comitato centrale. In questo modo si garantì
l’incolumità fisica dei dirigenti: da quel momento in poi nessun leader caduto in disgrazia
fu più giustiziato.
Oltre a risolvere la questione del terrore tra i membri della dirigenza, gli eredi di Stalin
dovettero occuparsene anche a livello generale, in tutta l’Unione Sovietica. Stalin aveva
profuso un impegno enorme nel sistema del gulag. Nel 1952 il Ministero degli Affari
Interni, che lo dirigeva, controllava il 9% di tutti gli investimenti di capitale, più di
qualsiasi altro ministero, e con la pjatiletka del 1951-1955 si progettò di raddoppiare
questa cifra. Tuttavia, il mantenimento dei campi si faceva sempre più difficile. Erano un
immenso pozzo senza fondo, violento e poco produttivo, dove cominciavano a diffondersi
forme di resistenza. Negli anni del dopoguerra gli scioperi e le rivolte erano fenomeni
frequenti nei campi. Nel 1952, andarono perdute in questo modo due milioni di giornate
lavorative; la situazione culminò con lo sciopero di quaranta giorni organizzato in modo
perfetto a Kengir, in Kazachstan, nel 1954. Il terrore, inoltre, impediva che si discutesse
dei reali problemi sociali ed economici per trovarne una soluzione. Il leader che dimostrò
di essere maggiormente consapevole della situazione, e inizialmente il più attivo
nell’affrontarla, fu lo stesso Berija, anche se i suoi fini rimangono oscuri. A pochi giorni
dalla morte di Stalin annullò l’imponente e dispendioso progetto sui campi previsto dalla
pjatiletka, amnistiò alcuni prigionieri per reati minori, proibì la violenza (tortura) sugli
arrestati e interruppe le indagini intorno al presunto «affare dei medici». Anche dopo il
suo arresto, queste politiche proseguirono il loro corso: nel 1953 furono amnistiati 1,2
milioni di prigionieri. Si trattava in molti casi di veri criminali, il cui rilascio provocò
un’ondata di delitti (rievocata in maniera memorabile dall’intenso film di A. Proškin del
1987 L’estate fredda del ’53). Nel 1954 le autorità intrapresero un’opera di grandi
cambiamenti nei campi e diedero avvio alla riabilitazione dei detenuti liberati. Il processo
era ormai in corso e la denuncia dei crimini di Stalin da parte di Chruščëv nel 1956 non
fece che accelerarlo; tuttavia, i campi, benché riformati, continuarono a esistere fino alla
disgregazione dell’Unione Sovietica. Anche dalla letteratura cominciarono ad arrivare i
primi, cauti segnali di liberalizzazione: ricordiamo Il disgelo, bestseller di Il’ja Erenburg
(1954), e Rajonnye budni (Giorni di provincia, 1952-1956) di Valentin Ovečkin, che