Page 225 - Storia della Russia
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espedienti di ogni tipo. In questo periodo, nelle parole della Fitzpatrick, «L’homo
sovieticus era un maneggione, un traffichino, un conformista, un parassita, un declamatore
di slogan e molto altro ancora, ma soprattutto era un uomo che lottava per la propria
sopravvivenza». Indifferente a tutto ciò, Stalin perseguì con costanza l’ideale di un forte
stato moderno e quando morì lasciò un’Unione Sovietica divenuta ormai superpotenza. Si
trattava però di una creazione disumana, che conteneva il seme dell’autodistruzione.
Una delle controversie più ricorrenti sulla natura dello stalinismo ha riguardato la sua
continuità. Fu la logica conseguenza del bolscevismo di Lenin o la sua negazione? Lenin
non aveva la vanità personale e lo spirito vendicativo e paranoico di Stalin, eppure i due
intendevano allo stesso modo la natura del potere e le sue necessità; inoltre, alcune recenti
scoperte negli archivi hanno evidenziato lo sprezzo di Lenin per la vita umana e la sua
mancanza di scrupoli nel ricorrere alla violenza per raggiungere i suoi scopi. Da questo
punto di vista possiamo considerare la «rivoluzione staliniana» come un ritorno ai metodi
della guerra civile e del terrore rosso, scatenati contro ostacoli interni reali o immaginari,
che Lenin aveva usato contro i nemici politici dei bolscevichi; questi metodi, oltre a tratti
caratteriali di Stalin, riflettevano problemi strutturali del sistema sovietico. I critici che si
oppongono alla tesi della continuità, invece, sono convinti che gli elementi peculiari del
periodo staliniano siano l’estremismo della rottura violenta con l’ordine esistente, nonché
l’indebolimento del partito su cui invece Lenin faceva affidamento. Per loro, dunque, lo
stalinismo fu solo una delle possibili vie dopo la morte di Lenin. In realtà, in un caso come
questo, continuità e differenza non si escludevano a vicenda.
Cercando di comprendere l’Unione Sovietica ai tempi di Stalin, i suoi critici hanno
trovato un utile modello interpretativo nel concetto di totalitarismo. Nell’«Europa dei
dittatori» degli anni Trenta, che vide sorgere regimi autoritari dal Portogallo alla Russia,
dall’Italia all’Estonia, le differenze ideologiche tra destra e sinistra sembrano avere meno
peso rispetto al tentativo comune a molti dittatori di controllare la totalità della vita
nazionale. Come il comunismo sovietico, lo stato fascista con un solo partito impose il
dominio esclusivo di un’unica ideologia, controllò con la forza, l’istruzione, i media, i
confini nazionali e i rapporti internazionali, attaccando persone e istituzioni che
rappresentavano valori alternativi o si interponevano tra il regime e i suoi cittadini. Lo
scopo sembrava quello di atomizzare la società, penetrare tutte le aree dell’attività sociale
e ottenere il dominio totale, senza mediazioni della popolazione. All’inizio della Guerra
fredda, quello del «totalitarismo» fu il modello interpretativo più usato in Occidente per
spiegare il fenomeno sovietico. In seguito, tuttavia, gli studiosi hanno dimostrato che un
simile controllo totale rimase solo un’aspirazione: né Hitler né Stalin raggiunsero il loro
obiettivo. Il carattere pervasivo e la presenza dello stato, nell’ordine caotico creato dalle
sue stesse azioni, non furono mai completi, e nonostante alcuni notevoli successi, il
regime non riuscì a eliminare sistemi di valori alternativi o a impedire alle élite e alla
gente comune di perseguire i loro scopi privati all’interno dei parametri dettati dal partito.
Il terrore staliniano non riuscì a distruggere completamente le reti da cui dipendeva il
sistema sovietico né a soppiantare il potere dell’identità nazionale e religiosa. Come
abbiamo visto, inoltre, concentrandosi sull’ideologia popolare all’epoca di Stalin, una
certa storiografia «revisionista» ha cercato di interpretare il fenomeno in termini di
interazione tra la base e il vertice, come una reazione della dirigenza ai movimenti sociali:
nella sua versione più estrema, questa corrente ha persino sostenuto che lo stalinismo fu