Page 224 - Storia della Russia
P. 224
Lo stalinismo
Fin dall’inizio i bolscevichi rivendicarono la costruzione di un tipo di società senza
precedenti e questa loro certezza assunse nuovo valore con gli straordinari sviluppi
sovietici degli anni Trenta, specialmente in confronto con la contemporanea crisi
capitalistica. Dalla fine degli anni Venti, il regime proclamò la propria versione della realtà
sovietica, assiduamente propagandata in patria e all’estero, un’immagine eroica che
minimizzava le debolezze umane e del sistema, descriveva il presente in termini di
teleologia marxista-leninista e alimentava l’entusiasmo popolare per costruire il futuro: si
trattava del realismo socialista applicato alla realtà. Insieme ai bolscevichi ortodossi,
anche molte voci esterne, in particolare i cosiddetti «compagni di strada» (simpatizzanti
con il comunismo), accettarono questa visione mitica della società sovietica: tra gli esempi
inglesi più illustri ricordiamo gli importanti e influenti sociologi Beatrice e Sidney Webb,
che nell’opera in due volumi Il comunismo sovietico: una nuova civiltà (1935) dipinsero
un quadro molto positivo dell’Unione Sovietica. L’idea dell’Urss staliniana come forma di
civiltà separata e superiore esercitò un notevole fascino, un concetto che fu espresso anche
nella Costituzione di Stalin del 1936 ed era caratterizzato da un sistema normativo di
valori, contenuto nelle sacre scritture della Storia del partito comunista bolscevico
dell’Urss: breve corso (1938), fortemente stalinista; il regime possedeva un’arte,
un’architettura, un’organizzazione economica e politica proprie. Nel suo impressionante
studio sulla città di Magnitogorsk, Stephen Kotkin identifica nello stalinismo (con un
eccesso di enfasi) «la quintessenza dell’utopia illuminista, un tentativo di imporre,
attraverso lo stato, un ordine razionale alla società», superando al contempo le divisioni di
classe del XIX secolo. Per i credenti, Magnitogorsk (sempre secondo Kotkin) condivideva
con Gary, nell’Indiana, la città americana dell’acciaio che l’aveva preceduta, «il
sentimento di costituire […] una civiltà intera, una civiltà che poteva a buon diritto
rivendicare di essere l’avanguardia dell’umanità progressista». Questa idea sarebbe
riuscita a imporsi solo a scapito della realtà presente, attraverso una visione manichea del
mondo e sfruttando proprio quella profonda disumanizzazione morale basata sul sistema
di classi che in pratica provocava atteggiamenti la cui conseguenza era la negazione degli
impulsi civilizzatori e filantropici propri dell’Illuminismo.
Per la massa di gente comune, più legata ai problemi di tutti i giorni che al credo
comunista, lo «stalinismo quotidiano» divenne, come ha dimostrato Sheila Fitzpatrick, una
lotta per la sopravvivenza. Con la collettivizzazione e il tramonto dell’imprenditoria
privata sancito dalla fine della NEP, cominciò un’era di penuria cronica, in cui passare le
ore in fila diventò la normalità; a dominare era la burocrazia, con giovani funzionari
incompetenti, scortesi e arroganti, senza alcuna dimestichezza per gli incarichi che
venivano loro affidati. Il controllo repressivo dello stato sviluppò nuovi meccanismi,
sempre più pervasivi: fu incrementato l’intervento della polizia segreta nella
collettivizzazione, ampliato il sistema del gulag, reintrodotto l’«esilio amministrativo»
tipico dell’epoca zarista, per non parlare del terrore. Alla presenza costante di delatori e
alla mancanza di privacy dovuta agli appartamenti comunitari, si aggiunsero la censura e
la chiusura delle frontiere, che isolarono i cittadini sovietici dal mondo esterno. Reti
clientelari e un’«economia di favori» (vale a dire il sistema del blat di cui si dirà oltre)
divennero sempre più necessari per una vita normale, e per mitigare il peso delle continue
mancanze materiali e la costante pressione da parte delle autorità si escogitarono