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                                                                                 L’espansione romana in Italia



                        2. L’organizzazione della plebe

                         Concili, tribuni, edili La plebe non disponeva dei mezzi sufficienti a far valere i pro-
                        pri diritti. Esclusa dalle magistrature, nei comizi essa era chiamata a deliberare solo su
                        proposte avanzate dai consoli patrizi. Per rendere incisiva la propria lotta e per acquisire
                        capacità d’iniziativa politica, essa si diede quindi una propria organizzazione. Nacquero
                        così i concili della plebe, un’assemblea ristretta ai soli plebei, che veniva convocata e pre-
                        sieduta dai tribuni della plebe, una carica anch’essa riservata a individui di estrazione ple-
                        bea, la cui origine veniva datata dalla tradizione all’anno 494 a.C. In un primo momento
                        i tribuni furono due ma il loro numero crebbe fino a dieci. I tribuni furono dichiarati «sa-
                        crosanti», vale a dire intangibili: i plebei si arrogavano quindi il diritto di uccidere chiun-
                        que avesse attentato alla loro persona. Essi esercitavano inoltre il diritto di veto (inter-
                        cessio) alle iniziative dei magistrati, cioè la possibilità di annullare con il loro voto le leg-
                        gi e i provvedimenti contrari agli interessi della plebe. Per fare funzionare questo sistema
                        erano necessari un archivio e un tesoro comune: ambedue furono dislocati nel tempio di
                        Cerere, Libero e Libera. La custodia dell’archivio e del tesoro fu affidata ad appositi fun-
                        zionari eletti annualmente, gli edili della plebe (da aedes, «tempio»).
                         Un’organizzazione non riconosciuta Questa organizzazione fu in origine estranea agli
                        ordinamenti della repubblica, e le leggi non la riconoscevano. Era una specie di «città nel-
                        la città», che operava autonomamente, in un perenne stato di tensione. Strumento fon-
                        damentale delle lotte plebee era la secessione (letteralmente «allontanamento»): la plebe
                        si ritirava fuori delle mura, sull’Aventino o sul Monte Sacro, e si rifiutava di militare nel-
                        l’esercito. Erano anni in cui Roma doveva affrontare ripetuti attacchi da parte di varie po-
                        polazioni italiche [®12.7]: la secessione diventò quindi un mezzo di pressione molto for-
                        te, che costrinse più volte i patrizi alla trattativa.
                         Richiesta di leggi scritte Nella Roma di quell’epoca non esistevano leggi scritte e i ple-
                        bei erano sottoposti all’arbitrio dei giudici patrizi. Era evidente che nessuna uguaglianza
                        politica sarebbe stata possibile fintanto che questa anomalia non fosse stata eliminata: le
                        lotte della plebe si concentrarono dunque su questo obiettivo. La situazione divenne sem-
                        pre più tesa e i patrizi furono costretti a cedere: nel 451 a.C. fu quindi nominata una com-
                        missione di dieci membri tutti patrizi, i decemviri, con l’incarico di redigere le leggi. Du-
                        rante l’attività di questo collegio, presieduto da Appio Claudio, furono sospese tutte le
                        magistrature ordinarie e i supremi poteri vennero affidati agli stessi decemviri.
                        Il primo collegio decemvirale concluse i lavori dopo un anno, con la redazione di dieci
                        tavole. Per il 450 fu nominata una nuova commissione aperta anche a membri di origine
                        plebea, presieduta dallo stesso Appio Claudio. Questo secondo decemvirato elaborò al-
                        tre due tavole di leggi. Secondo la tradizione, Appio Claudio, al termine del mandato,
                        avrebbe rifiutato di sciogliere la commissione e tentato di instaurare una tirannide; la ri-
                        bellione dei patrizi e dei plebei uniti lo avrebbe tuttavia abbattuto e costretto al suicidio.
                        Dietro questo racconto si nasconde forse uno scenario diverso: Appio Claudio appar-
                        teneva a una gens patrizia di tendenze «democratiche», tant’è vero che egli ammise i ple-
                        bei nel secondo decemvirato. Il suo rifiuto di sciogliere la commissione potrebbe spie-
                        garsi appunto con la volontà di non sottrarre ai plebei l’accesso al governo che essi ave-
                        vano momentaneamente guadagnato. Ad abbatterlo sarebbe stata la reazione degli altri
                        patrizi.
                        L’esperienza del decemvirato si concluse in modo drammatico. Restarono tuttavia le Do-
                        dici Tavole, che contenevano le prime leggi scritte dei Romani. Questo fu per la plebe,
                        un successo importante, che aprì la strada a nuove conquiste [®Le Dodici Tavole,p.286].

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