Page 114 - Quel che una pianta sa
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QUEL CHE UNA PIANTA SA
la storia delle persone che hanno dormito alla loro ombra. Co
me abbiamo visto nei capitoli precedenti, però, le piante hanno
chiaramente la capacità di conservare esperienze passate e di
richiamare questa informazione in un momento successivo per
integrarla nel contesto del loro sviluppo: le piante di tabacco
sanno qual è il colore dell’ultima luce che hanno visto. Gli al
beri di salice sanno se il loro vicino è stato attaccato dai bruchi.
Questi esempi, e vari altri, illustrano una risposta ritardata ad
avvenimenti occorsi in precedenza, fenomeno che rappresenta
un componente chiave della memoria.
Mark Jaffe,1 lo stesso scienziato che aveva coniato il termi
ne “tigmomorfogenesi”, pubblicò nel 1977 uno dei primi studi
sulla memoria delle piante, anche se non la chiamò così (parlò,
invece, di una ritenzione da una a due ore dell’informazione
sensoriale assorbita). Jaffe voleva sapere cosa spinga i viticci
dei piselli ad arricciarsi quando toccano un oggetto adatto a
farli avvolgere attorno a sé. I viticci delle piante dei piselli sono
strutture simili a steli che crescono in linea diritta fino a che non
si imbattono in uno steccato oppure in un palo che possono
usare come supporto, e poi si avvolgono rapidamente attorno
all’oggetto al quale si afferrano.
Jaffe mostrò che, se tagliava il viticcio di una pianta di piselli e
teneva il viticcio staccato in un ambiente bene illuminato e umi
do, poteva spingerlo ad arricciarsi semplicemente strofinando
ne il lato inferiore con un dito. Ma quando conduceva lo stesso
esperimento al buio, i viticci staccati non si arricciavano quando
li toccava, e ciò stava a indicare che per compiere il loro magico
attorcigliamento questi hanno bisogno di luce. Ma ecco la fac
cenda interessante: se veniva collocato alla luce un’ora o due più
tardi, un viticcio toccato al buio si arricciava spontaneamente
senza che Jaffe dovesse strofinarlo ancora una volta. In qualche
modo, comprese lo scienziato, il viticcio che era stato toccato al
buio aveva conservato l’informazione, richiamandola una volta
collocato alla luce. Questa conservazione e successivo utilizzo
dell’informazione è lecito definirla “memoria”?
In realtà, ricerche sulla memoria umana condotte da un ce
lebre psicologo come Endel Tulving ci forniscono una base ini
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