Page 17 - Orto. Dal balcone al campo.
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stagioni, rimettersi in sintonia con l’ambiente, le piante e gli animali. Essere dentro la natura e
non più fuori dai processi. Un’orizzontalità di rapporti con le cose, dentro la natura. Vedere
che tutto si trasforma davvero e nulla si distrugge». Sorrido ancora pensando ad Aurora che
storce il naso di fronte all’espressione «hobby farmer». Mi dice: «Noi non siamo hobby
farmer! Prima di tutto, per farmer s’intende un agricoltore vero e proprio, che coltiva per
produrre in quantità, allevando e altro ancora. Qui nell’orto in città si coltiva per motivazioni
differenti, per stare bene, per riappropriarsi del saper fare da sé. Le superfici non
basterebbero per l’autosufficienza completa. Le persone vengono a coltivare per ragioni
diverse, vogliono in un certo modo riscattarsi e uscire dal contesto quotidiano del lavoro che
non li valorizza dal punto di vista umano». Aurora racconta che nell’orto comunitario si
scoprono talenti: chi sapeva fare l’elettricista o l’idraulico, e lo aveva fatto da giovane o in
passato, nell’orto ritrova i propri ricordi e riscopre un talento. La testimonianza di Aurora, del
Giardino degli Aromi di Milano, ci fa capire che l’orto può essere un mezzo per rigenerare la
comunità e dare una seconda chance alle persone.
E, proprio nell’ottica di offrire una seconda chance, voglio ricordare l’importanza
dell’orto-terapia, diventata ormai una pratica accreditata anche presso le strutture ospedaliere,
per aiutare i malati terminali, o per migliorare le condizioni di vita di disabili e malati
mentali, che trovano nell’orto una dimensione in cui mettersi in gioco, abbattere le barriere e
far emergere le proprie capacità. È quello che è accaduto qualche anno fa in Cascina Bianca,
un centro diurno per disabili e autistici nel quartiere Quinto romani di Milano, dove insieme
ad alcuni amici, Fabio e Ambrogio, e alla nostra associazione Nostrale, abbiamo dato vita a
un orto. Grazie al lavoro della responsabile, Anna, abbiamo toccato con mano la felicità che
dà un piccolo fazzoletto di terra coltivata. Ma penso anche agli orti dell’ex Ospedale
psichiatrico Paolo Pini, dove sono rimasto affascinato di fronte ad alcune creazioni che
potevano senza dubbio essere definite «artistiche»: sostegni per pomodori e altri ortaggi
realizzati intrecciando rami di alberi, arte pura. E poi, tutto intorno, aiuole rialzate, contenute
da complessi ed eleganti intrecci di legno. Quando li ho visti, ho sentito che non si trattava
della mano di un appassionato della domenica, c’era molto di più: c’era una forza umana, uno
sguardo speciale sul mondo. Sono rimasto diversi minuti a osservare la maestria e l’eleganza
di tanta bravura, altroché designer o architetti, c’era lo zampino di un artista eclettico. Era
evidente, ero di fronte all’ennesima prova che c’è sempre da imparare, e più guardavo quelle
meravigliose strutture, più rimanevo affascinato e colpito per la sana ammirazione che
provavo. Parlando poi con una delle responsabili degli orti, ho finalmente scoperto chi aveva
dato vita a quelle bellissime installazioni orticole. Era un ragazzo del quartiere, che verrebbe
sbrigativamente definito una persona ai margini, con qualche problema mentale. Mi hanno