Page 133 - 101 storie di gatti
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                             TIBURTINO “IL BURINO”





                             «Amore stasera ti porto a cena fuori! Vengo a prenderti alle

          diciannove!». «Evviva, perché così presto?» rispose lei, abituata a ben altri orari e
          ai ristoranti del centro, dove abitavano. «Perché prima ti devo parlare, ciao!», e

          chiuse frettolosamente la telefonata per non farsi fare altre domande. Lei aveva
          capito benissimo, il suo compagno era un politico, aveva molto da fare, lunghe
          riunioni e diverse attività sul territorio romano.
              Per questo era anche un gran conoscitore di borgata e periferie; così solo più
          tardi lei seppe che quella sera sarebbero andati al Tiburtino III. Era una serata un po’
          umida e quindi, dopo il dibattito politico, decisero di cenare sotto uno dei grandi
          tendoni adibiti a ristorante; lei ovviamente brontolò che non avrebbe trovato niente,
          se non carne e salsicce, ma essendo vegetariana, perché animalista, si sarebbe

          accontentata di fagioli e insalata.
              La cena, però, finì in modo assai diverso da come era inziata. Una volta seduti a
          tavola, proprio mentre si discuteva di politica, venne distratta da un miagolio.
              Dopo un po’, nonostante il vociare e la musica di sottofondo che veniva dal
          palco, sentì di nuovo quel lamento e decise di alzarsi. Cominciò a girare per i tavoli

          guardando a terra e capì che il pianto disperato di un piccolo gatto ormai quasi afono
          proveniva da un intercapedine che si trovava tra il muro di cinta del campo sportivo,
          che ospitava la manifestazione, e un pesante telone di plastica che delimitava il
          tendone–ristorante. Scostò la plastica e lo vide: piccolissimo, tra cartacce, lattine e
          altri rifiuti. Non c’era modo di salvarlo se non infilandosi in quel cunicolo.
              E così fece, riemergendo tutta sporca, con quell’essere minuscolo che
          sgambettava, soffiando tutto arruffato. Non fu facile farlo calmare: era sporchissimo

          e puzzava, aveva pulci enormi, le orecchie piene di acari e una fame terribile. «E
          adesso che facciamo, mica lo porterai a casa?», gli disse lui, davanti agli amici con i
          quali aveva finito di cenare. Lei lo guardò con aria di sfida: «Pensi che possa
          sopravvivere qui?». Passò una mezz’ora nella quale lui tentò di mollare il piccoletto
          a qualche persona del quartiere ma ovviamente non ci riuscì.
              Era quasi mezzanotte e la festa stava per finire. I due decisero quindi di tornare a

          casa, salirono in auto e, per strappargli un sorriso, lei lo guardò dolcemente e gli
          disse: «Lo chiameremo Tiburtino, Tiburtino il burino». Dopo aver percorso qualche
          chilometro, il gattino cominciò a miagolare fortissimo: aveva fame. Lei non osò
          aprire bocca ma, a metà di via Nazionale, lui fermò la macchina, scese e dopo
          qualche minuto tornò con degli omogeneizzati comprati in una farmacia notturna. Poi
          la guardò con dolcezza e le disse: «A casa non c’è cibo adatto per gatti così
          piccoli».
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