Page 34 - A spasso con Bob
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James Street, dove avevo iniziato a suonare, era appannaggio delle statue umane.
          Ce n’era più di una in giro, come per esempio un tizio vestito da Charlie Chaplin che
          guadagnava abbastanza bene solo che veniva saltuariamente e quando lui marcava
          visita,  prendevo  il  suo  posto,  ben  sapendo  che  i  Guardiani  avrebbero  potuto

          cacciarmi da un momento all’altro.
             Tantissima gente usciva dalla metropolitana e, se soltanto uno su mille mi avesse
          lasciato un’offerta, avrei sicuramente portato a termine la mia giornata con successo.
             Erano già le tre del pomeriggio quando finalmente svoltai in James Street, ma di

          nuovo ci fermò un uomo che, a giudicare dalla maglietta sudata che indossava, era
          appena uscito dalla palestra. Il giovanotto riservò una serie completa di coccole a
          Bob e poi, credo per scherzo, mi chiese se poteva comprarlo.
             «No, amico. Non è in vendita», gli risposi, casomai avesse detto sul serio.

             Mentre  mi  allontanavo,  guardai  Bob  e,  scuotendo  la  testa,  commentai:  «Solo  a
          Londra, amico. Solo a Londra succedono cose simili».
             Raggiunta la mia postazione, lanciai un’occhiata in giro per controllare che non ci
          fossero  Guardiani  o  qualche  dipendente  della  metropolitana  che  ogni  tanto  mi
          mandava via. Campo libero.

             Feci scendere Bob dalla spalla e lo sistemai accanto al muro, mi tolsi la giacca,
          tirai fuori la chitarra dalla custodia e cominciai ad accordarla.
             Di  solito  mi  ci  volevano  dieci  minuti  buoni  prima  di  cominciare  ad  attirare

          l’attenzione dei passanti, ma questa volta, stranamente, non avevo ancora emesso una
          sola  nota  che  già  due  persone  si  erano  fermate  e  avevano  lasciato  cadere  delle
          monete nella custodia aperta dello strumento.
             Molto generoso da parte loro, pensai. Ma non furono gli unici. Davo le spalle alla
          strada, non avevo ancora finito con l’accordatura, quando sentii ancora il familiare

          tintinnio degli spiccioli e anche una voce maschile che diceva: «Proprio bello il tuo
          gatto, amico».
             Mi voltai e vidi un ragazzo che avrà avuto sì e no vent’anni e che si allontanava

          sorridendo con il pollice alzato, poi abbassai lo sguardo e mi accorsi che Bob si era
          acciambellato dentro la custodia. Sapevo bene che era una bestiola molto carina, ma
          questo non bastava a spiegare quanto stava succedendo quel pomeriggio.
             Avevo imparato a suonare da autodidatta quando vivevo in Australia, bastava che
          qualcuno mi mostrasse un accordo e subito ero capace di riprodurlo.

             Avevo  acquistato  il  mio  primo  strumento  in  un  negozio  di  seconda  mano  di
          Melbourne all’età di quindici anni, un po’ tardi per iniziare, credo.
             Fino a quel giorno avevo sempre preso a prestito la chitarra acustica degli amici,

          ma andavo pazzo per Jimi Hendrix e perciò l’avevo comprata elettrica.
             Il  repertorio  che  suonavo  adesso  era  lo  stesso  che  avevo  imparato  da  ragazzo:
          Kurt Cobain, uno dei miei miti, qualcosa dei Nirvana, ma anche diverse canzoni di
          Bob Dylan. I miei pezzi forti erano Hurt nella versione di Johnny Cash, ma anche
          Man in Black. Era una canzone che piaceva sempre al pubblico e che, in un certo
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