Page 111 - A spasso con Bob
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Una decina di giorni prima del Natale 2008 mi recai all’aeroporto di Heathrow
          con  una  certa  tristezza  nel  cuore.  Avevo  salutato  Bob  a  casa  di  Belle.  Mi  era
          sembrato  allegro,  ma  certo  non  immaginava  che  non  mi  avrebbe  rivisto  per  sei
          settimane.  Sapevo  che  con  la  mia  amica  non  avrebbe  corso  alcun  pericolo  e  che

          sarebbe  stato  bene,  ma  non  riuscivo  a  smettere  di  preoccuparmi.  Ero  diventato
          veramente un genitore apprensivo.
             Mi  ero  prefigurato  un  viaggio  in  aereo  piacevole  e  rilassante  e  non  potevo
          commettere errore più grande. Quelle trentasei ore di viaggio furono un incubo, nel

          vero senso della parola.  Per arrivare a  Pechino ci vollero undici ore: guardai un
          film, mangiai, ma non riuscii a dormire perché non mi sentivo niente bene. Forse era
          anche colpa del nuovo farmaco, ma sicuramente tutta la pioggia e il freddo che avevo
          incamerato  lavorando  senza  sosta  per  un  mese  avevano  avuto  delle  ripercussioni

          sulla mia salute, con il risultato che mi era scoppiato un terribile raffreddore e che
          per tutto il viaggio non avevo smesso di starnutire. Gli steward e le hostess avevano
          continuato a lanciarmi strane occhiate e qualche passeggero delle poltrone vicine si
          era lamentato, ma questo non era niente rispetto a quanto successe appena atterrati
          all’aeroporto.

             Mentre  rullavamo  sulla  pista  in  direzione  del  terminal,  il  comandante  annunciò
          prima in cinese e poi in inglese, di restare seduti fino alla nuova comunicazione.
             Che strano, pensai.

             Poi vidi due cinesi in divisa con le mascherine sul viso che camminavano lungo il
          corridoio e che si dirigevano… proprio verso di me. Appena arrivarono alla mia
          poltrona,  tirarono  fuori  un  termometro.  Una  hostess,  che  li  affiancava  traduceva
          quello che stavano dicendo: «Questi signori sono funzionari del governo cinese e
          devono misurarle la temperatura».

             «Va bene», annuii, non era certo il caso di discutere.
             Rimasi seduto ad aspettare mentre i due guardavano l’orologio. Poi mormorarono
          qualcosa  di  incomprensibile  e  la  hostess  spiegò:  «Le  chiedono  di  seguirli  e

          sottoporsi ad alcuni accertamenti medici».
             Era l’anno di massima diffusione dell’influenza suina e le autorità cinesi erano in
          allarme.  Avevo  visto  un  servizio  al  telegiornale  qualche  giorno  prima  dove
          spiegavano che se c’era soltanto il minimo rischio di contagio, i passeggeri in arrivo
          in Cina venivano messi in quarantena e trattenuti per giorni.

             Quindi non ero affatto tranquillo mentre camminavo scortato dai due funzionari,
          immaginandomi di finire rinchiuso chissà dove per un mese.
             Fui  sottoposto  a  ogni  controllo  possibile,  dagli  esami  del  sangue  a  quello  dei

          tamponi. Probabilmente scoprirono un sacco di cose interessanti sul mio conto, ma
          non trovarono traccia dell’influenza suina, della SARS o di qualsiasi altra pandemia.
          Dopo  un  paio  di  ore,  un  funzionario  mi  annunciò  che  ero  libero  di  andarmene,
          accompagnando la frase con qualche frettolosa parola di scuse.
             L’unico problema è che dovevo trovare il cancello per il prossimo volo e quel
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