Page 109 - A spasso con Bob
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Non dovevo decidere subito. C’erano molti aspetti da prendere in considerazione.
Ovviamente, il più importante è che l’avrei rivista. Indipendentemente dagli alti e
bassi del nostro rapporto lei era mia mamma e mi mancava.
Nel periodo in cui ero tossicodipendente e vivevo in strada c’eravamo sentiti un
paio di volte, ma non avevo avuto il coraggio di dirle che cosa mi stava realmente
succedendo. Mi ricordavo anche dell’ultima volta che c’eravamo visti, nel 2000. Era
venuta in Inghilterra per un breve periodo e le avevo dato appuntamento in un pub,
vicino a Epping Forest. Avevo preso la metropolitana e avevo trascorso con lei tre o
quattro ore. Quando molti anni prima non ero tornato in Australia come promesso,
dopo i primi sei mesi a Londra, le avevo raccontato che suonavo in una band e che
dovevo rimanere per «farla crescere».
Ai tempi del nostro ultimo incontro avevo continuato a mentirle, insistendo con
quella storia.
Era stata dura raccontarle un mare di fandonie, ma non avevo il coraggio e la forza
per confessarle la verità: che dormivo sotto i ponti, che mi bucavo e che, per farla
breve, stavo buttando via la mia vita.
Non avevo idea se mi avesse creduto, ma in quel momento della mia esistenza non
me ne importava un accidenti.
Da allora c’erano state soltanto sporadiche telefonate, passavano mesi senza che
ricevesse mie notizie il che, ovviamente, l’addolorava molto.
Non pensai neanche di farle uno squillo quando a Londra ci furono gli attentati del
7 luglio 2005. Per fortuna non mi trovavo nei luoghi delle esplosioni, ma mia madre,
che era dall’altra parte del pianeta, non poteva saperlo.
Nick, che viveva ancora con lei ed era un poliziotto, era riuscito a mettersi in
contatto con alcuni colleghi londinesi e in via del tutto personale aveva chiesto di
rintracciarmi. Avevano trovato il mio nome in uno dei loro registri e avevano
mandato due agenti a cercarmi nella topaia in cui vivevo a Dalston.
Quando i poliziotti si erano presentati alla mia porta, mi ero spaventato a morte.
«Niente paura, amico. Non hai fatto niente di male», mi aveva tranquillizzato uno
dei due, quando ero sbiancato. «Ci sono due persone, nell’altro emisfero, che
vogliono sapere se sei vivo.»
Fui tentato di fare una battuta sul fatto che ci mancava poco che mi venisse un
infarto, ma alla fine avevo deciso che era meglio tenere la bocca chiusa. Non mi
erano sembrati così contenti di essere stati costretti a cercarmi.
Avevo chiamato la mamma al telefono e l’avevo rassicurata che stavo bene.
All’epoca non mi era neanche passato per l’anticamera del cervello che potesse
essere preoccupata per me. Credevo di essere solo al mondo e di dovermi occupare
soltanto della mia sopravvivenza. Ma adesso la mia vita era cambiata.
Dopo tutti questi anni di incomprensioni e di menzogne, avevo finalmente la
possibilità di farmi perdonare e di raccontarle la verità. Sentivo di doverglielo e ne
avevo bisogno.