Page 104 - A spasso con Bob
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disturbato, pieno di sogni, o meglio di allucinazioni.

             È difficile ricordare con esattezza, però immaginavo che mi procuravo l’eroina.
          Non era un unico sogno, ce n’erano molti e tutti più o meno simili: lo spacciatore mi
          consegnava la dose e io me la iniettavo, oppure trovavo la roba ma non riuscivo a

          infilarmi  l’ago  in  vena  e  ancora  sognavo  che  la  polizia  mi  arrestava  prima  che
          riuscissi  a  bucarmi.  Ovviamente  il  fisico  stava  reagendo  in  quel  modo  perché  in
          astinenza  da  metadone,  ma  non  era  soltanto  una  reazione  fisica.  Il  mio  inconscio
          cercava  di  convincermi  che  non  potevo  farne  a  meno,  che  se  ricominciavo  a
          prenderlo sarei stato subito meglio. Nei meandri del mio cervello era in corso una

          feroce  battaglia  tra  due  opposte  volontà  alla  quale  io  non  potevo  fare  altro  che
          assistere inerme.
             Quella notte sembrò interminabile e quando finalmente arrivò il mattino avevo un

          mal di testa atroce, una emicrania con dolori lancinanti e una ipersensibilità alla luce
          e ai rumori.  Se però decidevo di restare al buio, ricominciavano i sogni, anzi gli
          incubi,  e  precipitavo  di  nuovo  in  uno  stato  di  allucinazione.  Ero  in  un  circolo
          vizioso.
             Ciò  di  cui  avevo  bisogno  era  distrarmi,  non  pensarci,  e  fu  proprio  in  quel

          momento che Bob rappresentò la mia salvezza.
             Mi  chiedevo  spesso  se  tra  noi  ci  fosse  qualche  forma  di  telepatia.  Sembrava
          capace di leggermi nel pensiero esattamente come stava accadendo in quel momento

          angosciante della mia vita. Capiva che avevo bisogno di lui e non mi lasciava solo:
          mi stava appiccicato addosso, si strusciava e si allontanava soltanto se avevo una
          crisi.
             Era come se capisse quello che stavo provando. Qualche volta scuotevo la testa
          per  il  dolore  e  allora  mi  saltava  in  grembo,  avvicinava  il  musetto  e  mi  guardava

          come per dirmi: Ehi, amico, tutto bene? Sono qui, se hai bisogno di me.
             Altre volte mi si sedeva accanto, faceva le fusa, batteva la coda sulla mia coscia e
          mi leccava il viso.

             Mentre la mia mente vagava in un universo di allucinazioni e percezioni distorte,
          Bob rappresentava l’unico appiglio alla realtà.
             Era un dono del cielo per mille altri motivi. Tanto per iniziare mi «costringeva» a
          pensare ai suoi pasti: dover andare in cucina, aprire una scatoletta, versare il cibo
          nella ciotola, erano tutti gesti quotidiani che mi aiutavano a tenere la mente occupata.

          L’unica  cosa  che  non  riuscivo  a  fare  era  trovare  la  forza  per  uscire  di  casa  e
          accompagnarlo in strada per i suoi bisogni, perciò lo lasciai andare fuori da solo e
          mi  sembrò  che  ci  impiegasse  giusto  una  manciata  di  minuti,  come  se  non  volesse

          abbandonarmi.
             Per fortuna in quelle quarantotto ore di inferno ci furono anche dei momenti di
          normalità.
             La mattina del secondo giorno, per esempio, ebbi un paio di ore di tregua in cui mi
          sentii meglio. Giocai un po’ con Bob, poi mi misi a leggere un libro, un saggio su un
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