Page 98 - Oriana Fallaci - Solo io posso scrivere la mia storia
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per venire in America. Quando lui è tornato in Grecia, il mio ritiro è continuato
perché mi sono tenuta ancora a sua disposizione. Per Alekos non era ammissibile
venire in Italia senza trovarmi, e quando diceva «domani arrivo» bisognava che fossi
lì. Quando mi diceva: «Vieni! Quando vieni?», correvo. Una carriera come la mia
non può continuare bene in una situazione simile. Ecco perché quei tre anni non mi
hanno giovato professionalmente e pubblicitariamente.
Quando venivo ad Atene, non lo sapeva nessuno. Non vedevo nessuno. Neppure i
pochi amici che avevo laggiù. Kannellopulos, ad esempio, Melina Mercouri, certi
italiani. Dall’aeroporto mi trasferivo nella nostra stanza di via Kolokotroni, che era
la copia esatta della stanza più grande del nostro appartamento a Firenze, e di lì
uscivo soltanto la sera con Alekos. Del resto stare con Alekos non lasciava tempo
per altre persone o altre cose. Se un giornalista mi cercava, ad esempio per
intervistarmi, mi rifiutavo. Se a volte lo vedevo, era perché Alekos insisteva. Ero
una specie di Greta Garbo con gli occhiali neri. Non volevo interferire con la sua
fama di uomo politico. Non volevo togliergli luce con la mia personalità. (Anche per
questo preferivo che fosse lui a venire da me. In Italia mi sentivo più libera di essere
me stessa. E a volte Alekos si lamentava: «Tocca sempre a me venire da te! Tu non
vieni mai!».)
Quando Alekos morì e subito corsi ad Atene, tenni un comportamento che è noto
a tutti. Poterono fotografarmi solo in due occasioni: all’obitorio perché s’erano
arrampicati sulla finestra e mi riprendevano da lì (lo fecero finché me ne accorsi e
feci chiudere la finestra) e poi ai funerali. Nei cinque giorni compresi tra la morte di
Alekos e i funerali, io rimasi sempre rinchiusa nella nostra stanza di Kolokotroni.
Quella stanza, ripeto, era la «nostra casa di Atene» e la «nostra casina di Atene»
come Alekos la chiamava. Tutto, qui, era lui, noi. Perfino i mobili che avevamo
portato da Firenze. Alcuni comprati da me o da lui, alcuni che facevano parte del
nostro appartamento di Firenze e della mia casa in campagna. Così i quadri alle
pareti, le coperte sul letto, certi soprammobili. Ero diventata pazza per spedire
quelle cose. Così stare in quella stanza, in quei giorni, voleva dire stare con lui.
Ritrovarci insieme.
Non ho mai avvicinato un giornalista in quei giorni. Non ho fatto una
dichiarazione, nulla. Un giorno il fratello voleva che tenessi una conferenza stampa a
numerosi giornalisti che mi cercavano ed erano ad aspettare da ore nelle stanze
adiacenti, quelle dell’ufficio. Ma io rifiutai. Chiesero almeno una fotografia. Rifiutai
anche quella. Tutte le dichiarazioni furono fatte dalla famiglia. Uscii da quell’esilio
soltanto per far stampare il manifesto che dice «Nel 1968 Alessandro Panagulis fu
condannato a morte per avere cercato la libertà, nel 1976 Alessandro Panagulis è
morto per aver cercato la verità ed averla trovata». Il manifesto uscì con la firma
dell’EDYN. Ma non lo fece l’EDYN. Lo feci io. Lo ideai, lo scrissi, lo feci stampare.
Poi, all’ultimo momento, i suoi amici mi chiesero di firmarlo EDYN. E io, non per
loro ma per Alekos, lo firmai EDYN.
Poi uscii la mattina dei funerali, per andare all’obitorio anzitutto. C’era da
vestire Alekos. All’obitorio andai insieme alla madre e allo zio Gerassimos. Il