Page 100 - Oriana Fallaci - Solo io posso scrivere la mia storia
P. 100
altro. Appartiene alla storia. E ciò che io faccio, che farò, è per la Storia. Se
qualcuno dovesse intervenire o interferire, chiunque, troverebbe una tigre senza
pietà. Quindi è molto più saggio che stiano tutti zitti e tranquilli. L’ho già detto che
non sono una persona debole e che ho cattivo carattere. E non bisogna scambiare il
mio dignitoso silenzio per debolezza. O si rischia di pagarla cara. Comunque ci si
chiami.
Sul mio parlare di Alekos in America
In Grecia non sembrano capire una cosa: che Alekos è famoso in Grecia ma non
nel resto del mondo esclusa l’Italia. Lo conoscono abbastanza in Germania, in
Svezia, in Inghilterra. Ma nemmeno abbastanza: poco. Nel resto del mondo,
purtroppo, non sanno chi è. (Del resto prima della sua scarcerazione, in Grecia lo
conoscevano meno che in Italia perché i giornali avevano parlato ben poco di lui, e
sempre male.) Non lo conoscono ad esempio in America. E questo è molto male
perché, purtroppo, chi fa l’opinione pubblica mondiale è l’America. L’America ha in
mano la stampa del mondo, anche grazie all’Associated Press, alla United Press, ecc.
E per me è stato sempre un dolore che l’America ignorasse Alekos. Prima della sua
morte, e sebbene perfino Johnson e U Thant fossero intervenuti per salvargli la vita
quando fu condannato a morte, di Alekos si parlò in America solo una volta: quando
io pubblicai una lettera aperta a Kissinger perché il Dipartimento di Stato gli aveva
negato il visto. Un mio scritto fa sempre impressione in America. In quell’occasione
parlai anche alla TV di Alekos.
Poi si parlò di Alekos quando fu ucciso. Se ne parlò sul «New York Times», non
altrove, e naturalmente legando il suo nome al mio. Tra gli attributi che lo
dipingevano in quell’articolo c’era il fatto che fosse «The lover of a glamorous
companion: Oriana Fallaci». Me ne indignai tanto. Non ero più tornata in America
dopo la morte di Alekos. Ero a New York quando ci parlammo l’ultima volta al
telefono, venerdì 30 aprile. Ci ero andata per tenere una conferenza all’università di
Amherst sul tema «Il giornalismo e la coscienza politica in Europa». Al mio ritorno
in Italia, il 5 maggio, o il 4, dovevo rincontrarmi con Alekos a Roma. Di lì poi
saremmo andati a Firenze nella nostra casa.
Sono tornata in America decisa a spiegare agli americani chi era Alekos. Da
dieci mesi sognavo di farlo. Non lo avevano conosciuto da vivo, che lo
conoscessero almeno da morto. E l’unico modo per farlo era usare il mio nome. Le
persone ridicole che ridicolmente mi accusano di parlare di Alekos in America per
farmi pubblicità, non capiscono che non ci si fa pubblicità col nome di una persona
sconosciuta. Quindi è il contrario: è il mio nome che fa pubblicità ad Alekos. E
grazie al mio nome ho potuto parlare di lui: raccontare il perché della sua morte,
perfino lanciare accuse. L’ho fatto alla radio, alla televisione, molte televisioni, in
molte città. L’ho fatto sui giornali, nelle università, ovunque. E ho spiegato
naturalmente che sapevo di lui ciò che sapevo perché era il mio compagno. Sono
molto fiera di aver fatto questo. Ora molti americani sanno chi era Panagulis.
I miei libri sono molto venduti in America. E particolarmente l’ultimo: Lettera a