Page 101 - Oriana Fallaci - Solo io posso scrivere la mia storia
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un bambino mai nato. Purtroppo però certi giornali non hanno capito che la storia di
Lettera a un bambino mai nato è una invenzione letteraria. Poiché la donna del libro
non ha né nome né volto (ho fatto questo perché ogni donna si identificasse con lei)
alcuni giornali hanno creduto di identificarmi con lei. Hanno creduto cioè (e
abbastanza stupidamente visto che la donna del mio libro muore e io sono viva) che
io fossi lei, e che il bambino perduto fosse il mio. Da qui a chiedersi chi fosse il
padre del bambino, il passo è stato breve per i professionisti del pettegolezzo. E
alcuni giornali hanno creduto di identificare il padre del bambino del libro in
Alekos. Uno me lo ha addirittura attribuito.
La cosa di per sé non mi ha turbato. Ciò che mi ha offeso è veder ridotta a una
banale cronaca personale una invenzione letteraria, un’opera di letteratura. Uno
scrittore ha il diritto e il dovere di inventare, ricreare la realtà. È questa la differenza
tra uno scrittore e un giornalista. Ma purtroppo queste sono cose che accadono agli
scrittori donne. Se fossi stata uno scrittore uomo, l’equivoco non sarebbe avvenuto.
Supponiamo ora che lo stupido giornalista americano l’abbia azzeccata
nell’inventare che io ho perduto un bambino di Alekos. Supponiamo che questo sia
veramente accaduto. Cosa ci sarebbe di straordinario? Quando un uomo e una donna
si amano per tre anni, e in modo rigorosamente normale, il minimo che possa loro
succedere, prima o poi, è di avere o di perdere un bambino.
Sulla laurea honoris causa
Questo è stato l’unico lampo di luce in un anno di tragedie, e anche l’unica cosa
che mi abbia fatto sorridere, anzi ridere. Stavo cucinando lo stufatino per mio padre
(al quale piace quanto piaceva ad Alekos che mi costringeva sempre a cucinargli lo
stufatino di vitella e il coniglio stufato) quando mi sono ricordata di una lettera
giunta dalla Columbia University di Chicago, una settimana prima. Io ho un vizio
terribile: non apro mai le lettere. Alekos si arrabbiava sempre per questo. Vedeva
quei pacchi di lettere non aperte e gridava: «Fai una cattiveria!». Poi le apriva lui e
cominciava a dirmi cosa dicevano. Così mi sono ricordata di questa lettera e ho
pensato ad Alekos che mi brontolava perché non aprivo le lettere, e l’ho aperta. Ho
finito col bruciare lo stufatino. Perché ho incominciato a ridere, a ridere, come non
ridevo da un anno. Poi ho chiamato mio padre che era in giardino ad annaffiare le
peonie e gli ho detto: «Sono dottore». E anche lui s’è messo a ridere perché ci sono
due cose che io non ho mai voluto essere: una donna sposata e una donna con la
laurea. Non credo nel matrimonio, ho detto, ma nemmeno nelle lauree. Ogni
imbecille può prendere una laurea. Io ne conosco uno che l’ha presa, in Italia, con
centodieci e lode: grazie alle raccomandazioni. Eppure scrive con gli errori di
ortografia perfino in italiano.
Poi, insieme a mio padre, ho smesso di ridere. E ho pensato che una cosa è avere
una laurea perché sei uno sgobbone che passa agli esami a forza di riempirsi il
cervello con le cognizioni o perché è raccomandato. Una cosa è ricevere una laurea
come compenso e riconoscimento di un lavoro di una vita. Voglio dire: in tal caso
non è l’esame che conta, è il lavoro intero di una vita. Tutti gli articoli, tutti i libri,