Page 106 - Oriana Fallaci - Solo io posso scrivere la mia storia
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io che abito a New York incontro te che abiti a Sydney. E, con molta probabilità,
dopo il nostro incontro, tu torni a Milano e io torno a Bari, tu torni a Sydney e io a
New York. Perché ho un lavoro qua, e tu hai un lavoro là. Potremmo sposarci, ovvio,
ma allora uno di noi dovrebbe rinunciare a qualcosa cui oggi si è molto più legati
che alla famiglia: il lavoro. E nessuno dei due si piega. Ecco dunque che il nostro
incontro diventa breve, ma non per questo si esaurisce. C’è il telefono che ci tiene
legati e ci sono gli aerei che ci hanno fatto incontrare e che ci fanno incontrare di
nuovo.
Ora, il lavoro. Né io né te, abbiamo detto, vogliamo rinunciarvi. E mettiamo che
abbiamo due lavori in contrasto, per natura e per orario. Il nostro matrimonio
diverrebbe tale solo di nome, non come fatto. Così che accade? Accade che
entrambi, pur abitando a Milano, preferiscono stare soli. O meglio, insieme ma in
case separate.
Direi che è proprio questo a scoraggiarli dalla cerimonia del matrimonio. Cioè
un fatto pratico prima che intellettuale. O, se volete, morale. L’incontro oggi, infatti,
essendo condizionato da tali realtà, porta con sé come un’incertezza. Come una
paura. Non ci si fida, non si crede che possa durare. (E la realtà dimostra che, quasi
sempre, non dura.)
E qui sorge la domanda legittima: perché non dura? Non dura proprio perché non
c’è più la costrizione dello stare insieme. Perché si è esposti ad altre esperienze,
altri incontri, a distrazioni insomma. Prima durava perché si era costretti a stare
insieme e perché si aveva meno tentazioni. Nella società agricola era l’unico modo
di vivere. Ed anche nella società industriale dove le due solitudini (quella dell’uomo
macchina, ingranaggio della società industriale, e della donna idem) venivano unite
in una solitudine doppia. Un incontro insomma era definitivo. Ora un incontro non è
più definitivo. Perché non è più unico.
Possono comporre una famiglia due persone separate e sole? Forse il discorso è
prematuro nella nostra società. Ma io credo che queste due persone, pur vivendo
sostanzialmente separate o, dovrei dire, fisicamente separate per la maggior parte
del tempo o per metà del tempo o comunque per una parte del tempo, si sentono
legate. Come una famiglia che non è più la famiglia che si concepiva prima.
Toffler dice ne Lo choc del futuro che una famiglia può essere composta anche
da due omosessuali, cioè due pederasti o due lesbiche. E molti sociologi americani
d’oggi accettano questa tesi: che a me sembra un po’ discutibile. Non molto
discutibile ma un po’ discutibile. Ma se tale tesi è accettabile, allora perché non è
accettabile l’idea che io e l’uomo cui sono legata ormai da parecchio tempo non
componiamo un tipo di famiglia? Io sono legata a quest’uomo […]. E quando lui
viene da me, viene a casa sua. Quando io vado da lui, vado a casa mia. Siamo così
abituati, ci viene spontaneo considerarci a casa propria sia al mio indirizzo che al
suo indirizzo, che quando l’uno o l’altra suggerisce o pretende di spostare un mobile
o un quadro, bè… si litiga perché siamo tutti e due litigiosi, ma non si discute il
diritto dell’uno e dell’altro a suggerire di spostare o spostare quel mobile e quel
quadro.